Nella suggestiva Valeggio Sul Mincio, l'associazione culturale Humus ha organizzato una splendida serata in Villa Zamboni con Matt Elliott e Cabeki.
Il numero dei partecipanti l'evento è forse superiore alle aspettative, fatto sta che le due sale - nel caso di Cabeki poco più di una stanza - sono gremite.
E' Cabeki ad aprire le danze con il suo teatrino steampunk che affascina chi non lo ha mai visto e sentito. L'esperienza del recente tour ed i pareri positivi su 'Il Montaggio Delle Attrazioni' sciolgono ulteriormente estro e creatività in un flusso di suoni che in certi momenti si fa fatica a non pensare come improvvisati per la sua precisione nell'utilizzo dei tanti pedali, delle chitarre, degli strumenti meccanici d'antan che utilizza con un effetto impressionante.
Sullo sfondo intanto scorrono immagini di un estremo oriente anni settanta e Andrea ‘Cabeki’ Faccioli calmo e serafico mette in piedi un documentario sonoro da far invidia al National Geographic, fondendo atmosfere romantiche e languide ad esotismi retrò, suggestioni folkeuropee ed elettricità vintage.
‘Tokio New Orleans’, con il suo assolo di elettrica schiettamente rock e ‘Polvere di Carta’, nuovo significato al concetto di ‘slide’, i momenti più eccitanti della sua esibizione, ma anche i continui interventi con archetto e l'uso dell'elettronica povera rendono il suo show veramente divertente.
Lunghissimo e meritatissimo l’applauso finale e soddisfazione per un Cabeki entusiasta per aver suonato per la prima volta dinanzi ad un caminetto.
Si cambia sala per Matt Elliott e nonostante i pochi secondi che ci vogliono per raggiungerla la troviamo già gremita da riuscire a malapena a vedere la testa dell’artista di Bristol.
La chitarra acustica su cui Matt Elliott imbastisce le sue tragedie contemporanee ad un primo ascolto distratto è quella di un gitano sotto metadone. E’ musica dannatamente oscura ma sotto la scorza è viva e palpitante. Il suo folk cantautoriale è la trasfigurazione stessa del folk e del cantautorato ed è al servizio di un delirio dell’anima troppo lucido per essere sopportato.
Tra i brani più ‘sentiti’ ci sono almeno due tracce dell’ultimo album The Broken Man quali Oh How We Fell e In Dust Flesh and Bones, in cui la sua voce monocorde si sdoppia e rimbomba grave e drammatica nella sala grazie all’ausilio di una strumentazione scarna ed essenziale, la stessa che poi darà agio di imbastire dei drones ululanti, memore delle sue vite artistiche precedenti, dalle ‘songs’ della trilogia ai Third Eye Foundation.
C’è anche una cover in italiano, forse De Andrè, sulla quale Matt Elliott ironizza per la sua incapacità di pronuncia e di memoria. Poi fischia Matt Elliott, e quel fischio è l’equivalente della sega a nastro di Pall Jenkins dei Black Heart Procession, e poi si arrabbia Matt Elliott, quando qualcuno del pubblico parla e ride un po’ troppo durante l’esibizione, invitandolo con una tempesta di ‘fuckin’ ad uscire fuori dalla sala perché ‘c’è gente che ha pagato per sentire la fottuta musica’.
C’è tanto est europeo in queste murder ballads interiori, perché si sa, le musiche dell’est, balcaniche, sono sempre tanto tristi, e ci sono anche dei flauti che nel clangore generale sanno di sarabande celtiche. E tra un passaggio flamencato ed un lamento sull’amore perduto si realizza il vero folk apocalittico europeo che non ha nulla da spartire con gli stereotipi esoterico-marziali e le nostalgie decadenti dei prìncipi decaduti del neo-folk nero. Perché Matt Elliott è decisamente un artista libero, fiero e veramente indipendente. Sia nelle forme che nei dolorosi contenuti.