Voto: 
8.0 / 10
Autore: 
A. Giulio Magliulo
Genere: 
Etichetta: 
True Panther
Anno: 
2011
Line-Up: 

- Christopher Owens - Artwork, Composer, Guitar (Classical), Guitar (Rhythm), Harmonica, Mellotron, Vocals
- Chet "JR" White - Bass, Guitar, Percussion
- John Anderson - Guitar, Vocals (Background)
- Dan Eisenberg - Organ, Piano, Piano (Electric)
- Darren Weiss - Drums, Percussion

Tracklist: 

01. Honey Bunny
02. Alex
03. Die
04. Saying I Love You
05. My Ma
06. Vomit
07. Just a Song
08. Magic
09. Forgiveness
10. Love Like a River
11. Jamie Marie

Girls

Father, Son, Holy Ghost

Questo album potrebbe essere preso come uno dei testi di riferimento didattici per spiegare alle generazioni future il senso ultimo della teen-music (pop e rock and roll naturalmente) che stando al paradigma Girls non dovrebbe essere affatto cambiato dagli anni cinquanta ad oggi.

E noi sentiamo di condividerlo: a cos'altro servirebbero le canzonette se non a condensare quel coacervo di pulsioni che rispondono al nome di amore e sesso, deliro e peccato, redenzione e tristezza, speranze e vergogna e convogliarle, darle una forma ed una voce?

Certo, il battage mediatico dovuto anche all'album ed all'e.p. precedenti ma soprattutto la storia umana di Chris Owens han sicuramente contribuito ad infervorare gli animi (sia quelli pro che contro) nei confronti di Father, Son, Holy Ghost (e si può facilmente immaginare chi appartenga ad una fazione, chi all'altra). Ma la cosa sorprendente è che i motivi alle reazioni opposte sono gli stessi. Perchè si ama o si odia un disco così? Perchè mette a nudo le miserie umane e perchè lo fa nel modo più ignobile, detestabile e ruffiano possibile ma che è al contempo anche quello più vero e genuino, efficace e diretto: lo fa attraverso la pop-music, lo fa attraverso il rock, andando a scegliere le fonti il più possibile originali e classiche, stabilendo un rapporto di continuità con le lacrime e gli ormoni dei nostri padri e ratificando un patto d'immortalità che è la stessa cosa di un patto con il diavolo, giusto per far tornare i conti.

Mitologia rock, anzi letteraria si direbbe, anche se poi ci si dovrebbe chiedere cosa c'è di tanto mitico o strano nell'osservare vite difficili, di strada, con tutti i problemi che ne derivano, dalla droga alla sessualità conflittuale dovuta a rapporti conflittuali che poi giustificano scelte spirituali quanto meno ambigue. Da questo repertorio di fatti e sensazioni nasce un album così come nascevano cinquanta anni fa gli albums dei mandanti spirituali di queste musiche.

L'esordio quasi demenziale, sicuramente scoppiettante di Honey Bunny è una commovente dichiarazione e richiesta d'amore di Owens a sua madre. Del resto "chi altri potrebbe amare quel corpo ossuto e quei capelli sporchi"? Un atteso riscatto dopo anni difficili e un momento così solare non ci sarà più in tutto l'album.

Alex ricorda la 1979 di corganiana memoria virata shoegaze e le chitarre hanno il suono di chi è stato adolescente al crepuscolo degli '80.

Die è un focoso hard-rock acido con la voce che entrando si adatta nel modo più geniale ad una base del genere; pervasa da ottimistica frenesia seventies, ci dice in realtà che moriremo tutti e stiamo andando dritti all'inferno. Il brano poi a metà, da cavalcata che è, diventa una riflessione younghiana con tanto di wah sospesi nell'aria e bucolicità diffusa.

Saying I Love You riporta a quella dimensione di romanticismo straccione e straclassico, trademark dei Girls, ma il climax in tal senso è raggiunto con la sequenza My Ma e Vomit, da ascoltare da soli, possibilmente sdraiati sotto l'albero di natale e tenendo lontano i coltelli. Nella prima, davvero epica, si evoca ancora il cuore di mamma mentre si è nell'oscurità più totale; la seconda invece, una delle migliori canzoni di quest'anno per chi scrive, con i suoi strappi soul di hammond ed il finale gospel, fà sentire davvero infelici e miserabili. Ambedue struggenti, ascoltarle rappresenta il modo più dolce per farsi del male.

Segue Just a Song con quell'arpeggio che sembra un prologo ad un pezzo prog, poi riacquista la sua forma ballad ma andando avanti, a ben sentire, potrebbe essere sì una ballad, ma estrapolata da un album prog-psych degli anni settanta come intermezzo acustico in un album che non lo sarebbe. Solo che qui l'intermezzo dura sei minuti e quaranta. E Magic, come da titolo, restituisce la magia, l'innocenza perduta di quegli anni, operazione retrò non da tutti, costelliana nelle intenzioni e nella forma come Love Like a River che cantata da chiunque altro – Elvis Costello a parte - sarebbe imbarazzante.

Forgiveness riflette i bagliori, il tramonto della west-coast e la conclusiva Jamie Marie è una Jens Lekman's song se lo svedese fosse nato in un sobborgo di San Francisco.

Father, Son, Holy Ghost attinge a tutto l'arcobaleno della pop-music ed è un grande album per l'attitudine 'slacker' dei suoi protagonisti che lo rende attuale, contemporaneo, dimostrando come la classicità senza tempo la spunti (quasi) sempre nell'inflazionato mondo delle fluorescenze pop.

La citazione biblica del titolo, al di là delle esperienze personali di Owens, suggerisce che il 'verbo' a cui si attinge, se ancora non si fosse capito, è quello della teen-music, che è il pop ed è il rock fino alla nausea, fino allo sfinimento, con i suoi innumerevoli cantori e profeti.

 

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