Alice Glass - Vocals
Ethan Kath - Instruments
- Fainting Spells
- Celestica
- Doe Deer
- Baptism
- Year of Silence
- Empathy
- Suffocation
- Violent Dreams
- Vietnam
- Birds
- Pap Smear
- Not in Love
- Intimate
- I Am Made of Chalk
Crystal Castles (II)
Direttamente dal Canada, il duo formato dal polistrumentista Ethan Kath e la fascinosa Alice Glass, voce del gruppo che va sotto il nome di Crystal Castles, ha conquistato la critica (un po’ meno il pubblico) nel 2008 con l’omonimo disco d’esordio. Il merito maggiore dei Crystal Castles è l’essere riusciti a reinterpretare in maniera originalissima un genere (la dance) e un’epoca (gli anni ’80) in un periodo della storia della musica in cui entrambe le cose sono quasi diventate dei luoghi comuni, un porto sicuro abusato spesso da mancanza di idee e originalità, ma che si svende come la birra a Berlino. Il famigerato duo, famoso per le sparatissime esibizioni live al fulmicotone, costruisce la musica su traballanti linee di tastiera, insistenti battiti elettronici e cascate di trilli 8-bit che ricordano i leggendari Atari, fondendo ritmi da pura dance discotecara a melodie al limite dell’orecchiabile: l’approccio è decisamente punk, ruvido, ostile all’ascoltatore.
Dopo il 2008, arriva il 2010 e la primavera si porta dietro il loro nuovo lavoro, un altro omonimo che per comodità indicheremo con (II). Ai primissimi ascolti l’impressione che se ne ricava è una sola, un po’ sconfortante: i Crystal Castles si sono sputtanati. Ascoltando le 14 canzoni dell’album dalla prima all’ultima, si nota che qualcosa è cambiato: la carica punk si è notevolmente attenuata, a regnare sono i regolarissimi 125/130 bmp tipici della totalità delle canzonacce house odierne, le melodie sono semplici, radio-friendly e lineari. “Un altro gruppo promettente venduto al commercio” viene da pensare tristemente, ma come si dice, l’apparenza inganna: i Crystal Castles sono tornati, e a pieno regime. L’unica differenza è che, questa volta, gli spigoli che nel precedente album puntavano imperterriti contro l’ascoltatore risultano smussati, addolciti: è così che nascono canzoni come Celestica, senza ombra di dubbio la più easy-listening ma perfetta nella sua fusione di dance, pop da classifica e dissonanze elettroniche. Oltretutto, questa è una delle poche canzoni in cui la voce sinuosa della Glass appare nuda e cruda, finalmente umana. Un’altra caratteristica delle canzoni dei Crystal Castles è infatti la loro completa inumanità, il loro essere fatte di chip e onde elettromagnetiche che ingoiano deformate voci di androide, senza corpo e senza sesso. E’ ciò che accade ad esempio in Not in Love, un tragico pezzo in cui pulsazioni traballanti si infittiscono come le fronde di un albero, mentre un malinconico robot dalla voce sottile canta di amori assenti e cuori vuoti. L’intero album è un’oscillare tra il sogno e la perdizione, tra il morbido pop frusciante di Pap Smear e le lame seghettate di Doe Deer, un velocissimo pezzo tagliente come i vecchi successi, a testimoniare che i Crystal Castles ci sono e sono sempre gli stessi. Si fa notare Suffocation, anima dance racchiusa in un corpo sintetico, alienante e ipnotica nei suoi crescendo, veri e propri coiti interrotti che si tranciano un attimo prima di raggiungere la cima, e si fa ricordare anche Violent Dreams, pacato pezzo da ascoltare dopo una notte in pista, tetra nenia di una voce androgina che descrive agghiaccianti scene di auto in fiamme e salvataggi tempestivi, sogni di morte adagiati sopra melodie fumose tratteggiate da interferenze inquietanti. E in questa giungla di suoni c’è anche il tempo per la ricerca sonora: Intimate è praticamente un indemoniato strumentale (le esili linee vocali sono usate a tutti gli effetti come uno strumento), raffinatissimo tra l’insistenza ossessiva dei sintetizzatori e rumori bianchi che spaccano le orecchie. Inesorabile arriva la fine, imprevedibile come nel caso del suo predecessore (anche se, a conti fatti, un po’ meno): I Am Made of Chalk, nonostante il titolo capace di suscitare le peggiori fobie nei claustrofobici, si rivela delicato e leggero, con i suoi trilli umanoidi chiamati a scalfire una pulita, liscia linea di gesso gettata dalle tastiere.
I Crystal Castles hanno colpito di nuovo nel segno: prima sconvolgono, sconcertano, scandalizzano e poi incantano, rassicurano. Fondamentalmente, la loro musica è sempre la stessa: estrema, viscerale, autentica, a volte ripetitiva e prolissa (sono questi i limiti maggiori del duo), ma lo scopo, la loro missione è sempre una: scrivere musica “tradizionale”, volta a descrivere e celebrare la tribù urbana, il clan dei cybernetici di cui è tipica. Ma in fondo non c’è molto da dire, la musica è l’arte effimera per eccellenza, è impalpabile, e quella dei Crystal Castles più di ogni altra: ognuno ha il sacro dovere di interpretarla come meglio crede. In fondo, “The Castle is always where its seeker most wants it to be. In plain sight, yet never seen. This is its nature” (citazione colta, e sta a voi scoprire di chi!).