- James Rushent - voce, basso, synth
- Dan Coop - synth, electronics
- Bob Bloomfield - batteria, synth
- Matty Derham - chitarra
- Chloe Duveaux - basso
1. We Are the Dead
2. John Hurt
3. Pull Out My Insides
4. Yeah
5. The Monkeys Are Coming
6. Wrong Time Wrong Planet
7. Wrestler
8. Wondering
9. The Knife
10. Broken Arms
Don't Say We Didn't Warn You
Non avevamo idea della cosa in cui eravamo tuffati e ora non possiamo davvero dire che non ci avevano avvisati.
Don't Say We Didn't Warn You: un'altra esclamazione lunga e sfacciatamente diretta, urlata a squarciagola per sottolineare il proprio ritorno. Eccentrici e così maledettamente weird (e questo lo si era ben capito già dal fulminante esordio You Have No Idea What You're Getting Yourself Into del 2008) i Does It Offend You, Yeah? riprendono finalmente il loro posto nella platea delle bizzarrie indie-elettroniche in salsa british del nuovo millennio, risvegliando di colpo tutto quel connubio di entusiasmo e aspettative nei loro confronti che negli ultimi tempi era andato lentamente scemando, nonostante un'attività live a dir poco intensa. Don't Say We Didn't Warn You fa tornare al massimo l'hype attorno al progetto capitanato da James Rushent, e lo fa portando con sè un inaspettato cambiamento strutturale: addio al chitarrista Morgan Quaintance ed entrata in pianta stabile del più trendy Matty Derham (Fields) e della giovanissima bassista Chloe Duveaux. Riguardo altri evidenti cambiamenti c'è poco da dire: i DIOYY? ripartono esattamente da dove si erano fermati tre anni fa, e quindi da quel mix micidiale di indie rock, dance punk ed electroclash che aveva fatto innamorare mezzo mondo (underground e non), rendendoli uno dei maggiori fenomeni elettronici europei in circolazione.
Per l'atteso ritorno Rushent cerca di mischiare (e rischiare) il meno possibile le carte in tavola, provvedendo essenzialmente ad una ripresa del sound ballabile e della sfacciata attitudine dance-punk che aveva fatto la fortuna dell'esordio; trattasi di elementi stilistici che, come c'era da aspettarsi, Don't Say We Didn't Warn You riprende senza addurre particolari innovazioni, se non un evidente potenziamento dei synth e delle scorribande elettroniche ed una produzione ancora più brillante, tirata a lucido, in grado di metterne maggiormente in risalto la roboante lucidità sintetica. Il problema del disco è che dietro quest'imponente armatura stilistica si cela un sound e un registro compositivo decisamente meno genuino: quella che nell'esordio era una contaminazione sintetico-strumentale molto sottile ma arrangiata con inaspettato acume, si trasforma adesso in un'orgia di synth sempre più caotica (John Hurt, probabilmente il miglior episodio del lotto) e melodie oblique e sbiascicate (Yeah), intervallata però, come al solito, da momenti più easy e di diretta fruizione (l'indie pop edulcorato di Pull Out My Insides, quello più sommesso di Wrong Time Wrong Planet e l'atmosfera giocosa di The Knife). Nonostante a mancare sia un vero e proprio inno - come nell'esordio potevano esserlo le indimenticabili Battle Royale, We Are Rockstars e With A Heavy Heart - Don't Say We Didn't Warn You riesce comunque a trovare momenti di efficace groove e di buone intuizioni melodiche: l'opener We Are the Dead si esprime in un piacevole contrasto tra la strofa pulita e il rombante refrain sintetico, Wrestler e il singolo di lancio The Monkeys Are Coming ritirano fuori all'improvviso tutta la cattiveria electro di Rushent, e poi quel gioiellino chiamato Broken Arms che chiude l'album, inaspettata ballata tutta malinconia e ritrovata dolcezza, paradossale pugno in faccia alla strafottenza sintetica delle precedenti hit.
Don't Say We Didn't Warn You doveva riportare in auge uno dei nomi più scottanti dell'attuale panorama indie-elettronico europeo e lo fa, seppur senza lasciare realmente quel segno che ci si aspettava con cieca fiducia da un teppista del suono come James Rushent. In ogni caso i Does It Offend You, Yeah? il loro lavoro l'hanno svolto e il risultato non è stato nè un crollo qualitativo verticale (vedi Crystal Castles), nè una svendita totale alla mercè del mainstream massificato (vedi gli ultimi Haudoken!), nè un azzardato cambio di sound e stile (vedi Klaxons). E forse il problema di questo ritorno è che in pratica non muta nulla, non presenta evidenti maturazioni ma neanche eccessive cadute di stile. Ma attenzione, perchè il (finora lieve) morbo di questo genere - ormai sempre più abusato ed espanso - rischia di trovarsi di fronte al proprio parossismo più velocemente delle aspettative.