Nella stagione infinita dei grandi ritorni, solo una band ha annunciato di volersi sciogliere dopo un ultimo tour: gli Stones. La notizia lascia tutto il tempo che trova ma se la motivazione questa volta può sembrare ‘simbolicamente’ forte, e cioè il superamento della venerabile soglia dei 70 anni di Charlie Watts, allora quei ragazzini dei Cult sono più che legittimati a salire su un palco.
Formazione che nel bene o nel male ha sempre destato emozioni forti quella dei Cult. In un’epoca di forte ripudio verso chi si bombardava di ormoni hard-rock e di sguardi sospetti per liberi spiriti grebo-metal e in cui era fin troppo facile lasciarsi avviluppare dalle spire della new-wave romantica ed oscura e dalla fascinazione per la nuova estetica goth figlia del post-punk più androgino, i Cult hanno saputo cavalcare quella contraddizione e risolvere quella disputa meschina recuperando addirittura arcaici stilemi glam e flower-power, consacrando infine il tutto sotto la bandiera del rock and roll più mainstream, pur partendo da presupposti decisamente underground. Chi giudica i Cult soltanto per questo indiscusso appeal commerciale ignora quindi tali presupposti, e poi questo percorso è così dissimile da quello fatto da Soundgarden o Monster Magnet per esempio, in decadi successive? L’apparizione sul palco di Ian Astbury fa un pò l’effetto ‘ritorno in tv di Serena Grandi’, ma non è il gonfiore dell’età a intaccare quella voce che fa parte di un coro immaginario che include Jim Morrison, Glenn Danzig e John Garcia: voci profonde ed evocative, provocanti e maligne, incantatrici ed acide, buone per il crooning quanto per l’anthem. Poi è tutto un film montato senza una precisa logica che attraversa momenti di nostalgia revivalistica quando affrontano il loro zenit ‘Love’ con punte da ‘amarcord in ‘Rain’, ‘Revolution’, ‘Nirvana’ e ‘She sells Sanctuary’, potente rock metal da ‘Sonic Temple’ con le innodiche ‘Fire Woman’, ‘Sun King’ e ‘Sweet Soul Sisters’, assoli infiniti di un Duffy tutto Marshall e distorsioni, una ‘Edie Ciao Baby’ da rimettersi gli accendini in tasca, prosciugata da tutto il miele che cola e resa tagliente da un talking disincantato e da riottosi strappi elettrici. Poi, inaspettatamente, ‘Spiritwalker’ da quel primo (capo)lavoro di dark rock che fu ‘DreamTime’. Un set più che onesto insomma, che non si propone di sfidare le leggi fisiche dell’universo riproponendo impossibili ‘Resurrection Joe’; uno show per un pubblico che non è quello degli U2 e neanche quello dei Guns 'n' Roses! Però qualcuno invece tali leggi le viola eccome (e per fortuna): sono gli (ultra)heavy-psychsters giapponesi Boris che hanno cooptato mr. Astbury per un e.p. che uscirà a settembre e, al di là degli esiti, questo evento ha una valenza cosmogonica; più che un cerchio che si chiude, è una spirale che si innesta: sembra quasi un'invenzione di Paul Morley o una fantasia alla Julian Cope.
A. Giulio Magliulo