E’ stato proprio questo gruppo emergente della scena Post-Rock europea ad avere l’onore di aprire ai Cure nella maggior parte delle date del 4 Tour 2008, destreggiandosi in esibizioni da brivido, decisamente concrete dal punto di vista qualitativo e cariche di una delicatezza unica. Gli album One Time For All Time e The Destruction Of Small Ideas hanno raffigurato due piccoli gioielli rimasti nell’ombra fino all’esplosione di questo incredibile tour, punto di consacrazione per la formazione di Sheffield. Le campionature elettroniche poste come base alle canzoni dei 65 Days Of Static hanno ulteriormente valorizzato una prova degna di un gruppo di livello internazionale: l’assenza di voce tipica del Post Rock ha permesso di far emergere come protagonisti gli strumenti di tutti i membri della band, tra cui si è distinto in particolare l’abilissimo batterista Rob Jones, vero trascinatore nei meandri onirici degli scozzesi.
Il pianoforte poi ha garantito freschezza a tutte le composizioni, che sono riuscite ad attirare il numeroso pubblico già pronto per la performance dei Cure.
Alle 21 circa i quattro folletti di Crawley salgono finalmente sul palco tra le ovazioni degli spettatori che da anni attendevano una data come quella milanese, a tal punto che il sold-out per il PalaSharp era stato registrato già da alcuni mesi. Robert Smith, ormai cinquantenne, affronta ancora una volta l’audience milanese, risultando in gran forma vocale e pienamente coerente alla linea seguita dai Cure durante la lunga carriera: look di certo Dark quello del carismatico Robert, ma così non si può dire né relativamente all’interpretazione dei brani, né al registro vocale esibito anche in occasione dei pezzi più malinconici.
Nelle tre ore di concerto si è ripercorsa la storia della band inglese, non dimenticando nessuno dei periodi cardine di una carriera tanto varia quanto irripetibile: l’attacco con Plainsong ha svelato da subito la vena matura dei Cure, lontani dai fantasmi del passato e proiettati verso nuovi traguardi musicali. Si è continuato poi con il romanticismo dell’immenso Disintegration con brani del calibro di Prayers For The Rain e Love Song prima del binomio Picture Of You - Lullaby, un concentrato di emozioni che hanno cullato dolcemente gli spettatori.
Le perle nere di Disintegration sono state intervallate però da brani dal sapore più commerciale, che rappresentano la nuova anima del quartetto: Alt.End, The End Of The World, Catch, From The Edge Of The Deep Green Sea e Please Project si sono contrapposti agli episodi New Wave di A Night Like This e Kyoto Song, posati ed eleganti. Non sono stati tralasciati neppure i grandi classici che rievocano i fasti passati, perché Push e Just Like Heaven hanno scaldato il PalaSharp con il loro ritmo trascinante e la loro melodia deliziosa, prima della nuova carrellata di capitoli Pop, sicuramente gradevoli ma privi del fascino dei Cure più impegnati e riflessivi (A Boy I Never Knew, If Only Tonight We Could Sleep, The Kiss, Us Or Them, Never Enough, Wrong Number, The Baby Screams). La fine della prima parte del concerto è stata affidata ai pilastri della dissoluzione dei Cure, ovvero One Hundred Years e Disintegration, la prima delle quali è stata accompagnata da un supporto video macabro e decisamente connesso al il periodo della trilogia Dark.
Il basso di Simon Gallup durante l’intera esibizione ha garantito l’approccio tipico del Dark, lasciando invece alle chitarre di Smith e Thompson il compito di ravvivare con il loro gusto melodico; la batteria di Jason Cooper si è poi adattata a qualsiasi contesto, divertendo con gli spunti Alternative, accarezzando con gli accompagnamenti Pop e divenendo ossessiva nei capolavori degli Ottanta.
Proprio a questo periodo è dedicato il primo encore dei Cure, che ritornano sul palco del PalaSharp per sfoggiare il repertorio di Seventeen Seconds, costituito da At Night, M e dalle eterne Play For Today e A Forest, cantate dall’intero pubblico presente.
Il secondo encore invece ha allontanato le sonorità cupe di Seventeen Seconds, perché tracce piacevoli e buffe come The Lovecats, Friday I’m In Love, In Between Days, Freak Show, Close To Me e Why Can’t I Be You? hanno trasformato il palazzetto in un concentrato di movimento e di spensieratezza.
La chiusura della data milanese, come quella di quasi tutti i concerti del 4 Tour 2008, è stata affidata ai pezzi giovanili dei Cure, pezzi sicuramente acerbi per la loro struttura e ancora poco consapevoli, ma reinterpretati con l’ottica esperta di chi ha alle spalle decenni di carriera: ecco quindi il trio Boys Don’t Cry, 10:15 Saturday Night e Killing An Arab, piacevolmente accolto da chi ammira anche la matrice Post Punk delle origini.
Tanti i grandi assenti di questa data milanese si sono registrate The Figurhead, Let’s Go To Bed, Fascination Street, To Wish Impossible Things o A Letter To Elise, sacrificate per dare spazio a parecchi successi commerciali dell’ultimo decennio: viene rimpianto a proposito anche il dimenticato Faith, album da cui è stata tratta occasionalmente solo The Drowning Man.
Nonostante ciò, le tre ore di musica all’insegna dei Cure di Robert Smith hanno plasmato una dimensione atipica per la città di Milano, dove migliaia tra giovani ed adulti si sono ritrovati a cantare insieme sulle note di capolavori che hanno segnato un percorso significativo per la vita di ognuno. Così come la carriera del gruppo, anche la serata si è articolata tra passioni, rimpianti, mancanze e speranze, perché una data dei Cure va oltre il semplice livello musicale, ponendosi più come un’esperienza da vivere almeno una volta, per essere catturati e stregati dalla personalità dei folletti neri di Crawley.
Report - Edoardo Baldini
Foto - Edoardo Baldini, Francesca Arzani, Giada Bastia, Marilena Sala