Evolution 2007
07/07/2007 - Ippodromo Le Mulina - Firenze
L’Evolution Festival giunge alla terza edizione e cambia per la prima volta la location nella quale si svolge: si passa infatti dallo stadio comunale di Toscolano Maderno, sul lago di Garda, all’Ippodromo Le Mulina di Firenze. A dirla tutta l’evento si svolge in una zona piuttosto periferica dell’ippodromo, un’area non particolarmente grande caratterizzata da, purtroppo, terreno polveroso e ciottoloso, e da, per fortuna, una massiccia presenza di alberi che hanno offerto un naturale riparo dal battente sole che ha accompagnato l’intera giornata.
Pochi gli stand di merchandise presenti e forse anche quelli gastronomici, i quali hanno tuttavia offerto prodotti che, in linea di massima, sembrano aver accontentato discretamente i presenti (sebbene abbiano sufficientemente provveduto a svuotare le loro tasche). Ottima l’idea di piazzare un centinaio di sedie, che hanno consentito ai più pigri di godersi le esibizioni in tutta comodità, al riparo dal sole e con ottima visibilità del palco grazie ai gazebo rialzati. Pregi e difetti del festival verranno passati in rassegna al termine del report, ma ora è il momento di entrare nel vivo. Il tempo di attraversare i cancelli e ricevere l’immancabile braccialetto, Trevor dei Sadist sale sul palco nelle vesti di presentatore! Ed è lui ad introdurre la prima band che calcherà gli assi del palco dell’Evolution Festival 2007.
FLASHBACK OF ANGER
Qualcuno deve avere il compito di rompere il ghiaccio, e questa volta tocca ai Flashback Of Anger, formazione italiana dedita ad un power di stampo moderno. I nostri giocano in casa, essendo fiorentini, e nel poco tempo messo loro a disposizione sfoderano tre pezzi che non brillano né per potenza, né per tiro, né per originalità, tanto che, alla fin della fiera, la cosa che rimane più impressa è il fatto che a breve voleranno ad Amburgo per registrare il loro debut album nientemeno che con Kai Hansen.
KINGCROW
Passano pochi minuti ed a prendere possesso del palco sono i romani Kingcrow, che col loro heavy/prog provano ad accendere il pubblico che, da qui in avanti, diventerà sempre più numeroso. Tuttavia, vuoi per il caldo, vuoi per la proposta non esattamente ideale per determinati contesti, la reazione non è esattamente entusiasta e la prova della band si risolve in una mezz’ora di poche emozioni. La cosa più rimarchevole è proprio l’arrivo on stage della band, col frontman Mauro Gelsomini in vesti tipicamente dandy con tanto di cilindro e giacca lunga ed aderente. Mah…
GORY BLISTER
Ancora Italia, ma stavolta si cambia registro e si passa al pazzoide growl/scream di Clode ed alle ritmiche intricate dei Gory Blister, formazione tornata lo scorso anno col ben accolto Skymorphosis. Qui l’atmosfera inizia a scaldarsi, si vedono i primi accenni di movimento nel pit ed in generale il coinvolgimento generale fa quel passetto in avanti che qualcuno doveva far fare. E tocca a loro, che travolgono per impatto e per potenza, pur non brillando per originalità, e nel cui tessuto sembra essersi ben amalgamato il nuovo vocalist. Promossi, comunque, anche in virtù della bellissima ‘1000 Eyes’ dei Death proposta in chiusura del set. Senza dubbio l’Evolution Festival di quest’anno inizia proprio adesso.
BEHEMOTH
Face painting, look quantomeno originale, due placche sul palco col loro simbolo stampato sopra. I polacchi Behemoth fanno sul serio, nonostante un orario improbo ed un caldo micidiale, senza contare il sole che a quell’ora (poco dopo mezzogiorno) li colpisce in pieno viso. Ma Nergal e combriccola non si lasciano impressionare dal calore della terra italica, e dopo aver preso prepotentemente possesso delle assi spazzano letteralmente via tutto ciò che trovano sulla loro strada. La tenuta di palco è eccellente, con i 3 addetti alle corde in prima linea ed Inferno che credo abbia distrutto le pelli della sua batteria a furia di menarci sopra con furia e violenza incredibili. Il muro sonoro elevato dai 4 demoni è un qualcosa di indescrivibile, letteralmente pauroso, e diventa quasi inutile citare le esecuzioni impeccabili di Christians To The Lions o di Slaves Shall Serve, perché è la loro esibizione per intero che impressiona per voglia e grinta. Le note negative sono gli intermezzi troppo farciti di gratuiti “fuck” e “fucking” di Nergal, oltre che una proposta musicale che dopo un po’ inizia inevitabilmente a perdere smalto anche per via dei volumi settati molto alti e che finiscono per disintegrare i timpani. Alla fine insomma, quasi si implora il cielo che finiscano, ma resta una prova assolutamente soddisfacente la loro, figlia di una passione e di una dedizione evidenti dalla prima all’ultima nota.
KATAKLYSM
Premetto che In The Arms Of Devastation mi aveva fatto fare più di un balzo sulla sedia quando uscì, quindi ero curioso di vedere cosa fossero in grado di fare nella dimensione live i canadesi Kataklysm. La partenza non è delle migliori a causa dei volumi del microfono e delle chitarre, che costituiranno la piaga del loro intero show, tra voce che sparisce e chitarre che a volte vengono sparate a palla. Ciò che rimane, tuttavia, tra un problema tecnico e l’altro è l’ottima resa live che hanno i pezzi tratti dall’ultimo disco, caratterizzati da granitici mid-tempo che hanno fatto scapocciare non poco i presenti, e la simpatia ed affabilità di Maurizio Iacono, frontman di chiare origini italiane che oltre al nome ha anche un discreto ricordo della lingua, sebbene con alcuni simpatici svarioni. Le ripartenze di stampo tipicamente death sono inframezzate da parti più cadenzate e da soli che rendono la struttura della tipica Kataklysm-song piuttosto varia e piacevole. Divertimento e violenza, insomma, in un mix che pare abbia soddisfatto i più.
CYNYC
L’emozione è tanta, poche storie. I Cynic sono una di quelle band circondate da un’aura quasi mitologica, per via di quell’incredibile disco, “Focus”, che ha rivoluzionato il modo di intendere la musica estrema, e di quell’altrettanto repentina scomparsa. Ci son voluti quasi 15 anni, ma alla fine eccoli lì, in una formazione per metà cambiata ma che mantiene i due assi portanti, vale a dire Paul Masvidal alla chitarra/voce e Sean Reinert alla batteria. Le prime note sono quelle di Veil Of Maya, e non nego che un brivido ha percorso la mia schiena quando ho sentito la voce delicata e sofferta di Paul, ormai dedito solo alle clean vocals lasciando il growl alle registrazioni in playback. La scaletta è ovviamente incentrata su “Focus”, che viene riproposto quasi per intero, ma presenta la succosa novità di un brano inedito, Evolutionary Sleeper, che per atmosfere e mood generale non si discosta dagli storici brani del gruppo. Reinert dietro le pelli offre una prova che lascia semplicemente impressionati per varietà, velocità e sfoggio di tecnica. Scarsa l’interazione col pubblico, soprattutto durante le prime canzoni, ma nella seconda parte dello show Paul si rende conto dell’accoglienza che è stata loro riservata dai fans italiani ed allora non lesina ringraziamenti, seguiti da una chiusura quasi da attori teatrali, tutti abbracciati al centro del palco a fare un inchino al pubblico che ricambia le emozioni che i Cynic hanno saputo regalare con una standing ovation meritata.
KAMELOT
Lo ammetto: questo quintetto americano, dedito al power metal più melodico, non mi fa affatto impazzire, anzi, faccio una discreta fatica ad ascoltarli su disco. Live il discorso non cambia, ma com’è ovvio la valutazione va fatta sulla qualità della loro performance, che a dirla tutta, è senza infamia e senza lode. I Kamelot sembrano piuttosto carichi, ripropongono con energia i loro brani migliori ed alcuni estratti dal recentissimo Ghost Opera e tengono il palco con disinvoltura e dinamicità, eppure manca quel quid per far scattare il reale interesse e coinvolgimento. Sicuramente deficitarie le qualità di intrattenitore del frontman Roy Khantatat, e sinceramente ho trovato mal coordinata la band in buona parte degli attacchi, visto che gli strumentisti iniziavano a suonare prima che il vocalist finisse di parlare e di presentare i brani. A livello vocale, inoltre, c’è da ravvisare poca potenza, solo in parte imputabile all’ormai mitico problema del microfono, alla quale fa da contraltare però una buona interpretazione, piuttosto teatrale. Non esaltanti, insomma, soprattutto per via di una proposta che, tra orchestrazioni ed arrangiamenti pomposi, inevitabilmente finisce per infarcire eccessivamente il suono e che, in chiave live, fa perdere buona parte dell’impatto più classicamente power della band.
SODOM
Perennemente in giro e, soprattutto, presenti in una quantità impressionante di festival ogni anno. Ma d’altronde, si sa, la vita di certe band è legata a doppio filo ai palchi, al contatto con la gente, al sudore. E di sudore, anche questa volta, i Sodom ne hanno fatto buttare a iosa ai presenti, per non parlare del polverone che si alzava frequentemente dal moshpit. Si parte con l’opener dell’ultimo omonimo album, Blood On Your Lips, si prosegue saltellando tra vecchio e nuovo con Napalm In The Morning, Blasphemer e Outbreak Of Evil. Il trio tedesco è una macchina da guerra, ti investe in pieno volto come una scarica di mitragliatrice ed eleva un muto sonoro di cemento armato. Onkel Tom sembra quasi incredulo dell’accoglienza che il pubblico riserva alla sua band ed è chiaramente soddisfatto e divertito, interagisce e scherza col pubblico. Si chiude con Ace Of Spades e Bombenhagel, giusto per ridurre in cenere quel po’ che era rimasto dei presenti, ma peccato per la chiusura, troppo repentina e che ha lasciato l’amaro in bocca ai fan, sicuri che la band sarebbe risalita sul palco per suonare Ausgebombt. Per il resto, cosa dire? Il thrash dei tedeschi live è annichilente, e loro sono fatti per distruggere tutto. L’hanno fatto anche stavolta.
FATES WARNING
L'emozione che diventa musica metal e che si concretizza. Altro modo non vi è per descrivere un live dei Fates Warning e questo dell'Evolution 2007 è stata un'emozione ancora più grande, visto il rientro nei ranghi del chitarrista Frank Aresti, a riformare la storia coppia d'asce con Jim Matheos. I suoni non sono certi ottimali per una formazione come i Fates Warning:, che ha bisogno di grande cura, ma la loro classe è tale che risplendono subito le gemme di FWX, Disconnected e dell'onirico a Pleasant Shade Of Gray, in cui spicca anche la sessione rimtica nuova, con il sempre presente Joey Vera al basso e la new entry Nick Di Virgilio (già loro tournista dal 2005). Ma sono i pezzi storici che creano la magica atmosfera tipica dei Fates Wanring...quella dolce nostalgia che è attesa di un futuro che si avvicina piano. La voce di Alder, incredibile come sempre dal vico, ci porta nei territori di Eleventh Hour (mistica) e poi di We Only Say Goodbye e Point Of View. La coppia di sei corde Aresti-Matheos incanta con gioielli solistici che s'incastonano nelle strutture ritmiche da brivido della coppia Vera-Di Virgilio. A completare divinamente il tutto la voce di Alder, duttile, che sale al cielo ed accarezza come il rumore della pioggia notturna di Marzo. Scorre tutto fluido, forse troppo in fretta, ma si conclude con la maestosa e da brividi Monument. Poco da dire...suoni mal settati o no i Fates Warning non sono una band metal qualunque, ma un'esperienza del metal unica.
VIRGIN STEELE
David Defeis è una garanzia, non ci sono santi che tengano. Sarà un esaltato, eppure crede fermamente in quel che fa, ha un entusiasmo che ne basterebbe la metà e non si può non apprezzare il suo dinamismo e le sue doti vocali, che anche stavolta conferma alla grande, in uno show tutta energia e dallo stampo tipicamente Eighties. Personalmente non ho amato particolarmente i molti intermezzi musicali, le chiusure troppo stiracchiate di alcuni brani, con infiniti assoli e replice batteria/chitarra che francamente hanno finito per annoiare, ma tanto di cappello dinanzi ad un autentico dominatore del palcoscenico qual è Defeis, che non smette mai di incitare, di interagire col pubblico, di cantare ottimamente, anche se forse abusa eccessivamente del falsetto.
NEVERMORE
L’attesa era tanta, soprattutto dopo tutti i problemi incontrati dalla band di Seattle nell’ultimo biennio. Come prevedibile, sono ancora assenti sia Steve Smyth che Jim Sheppard, ed al loro posto ci sono l’ormai solito (e forse definitivo) chitarrista Chris Broderick e nientemeno che Joey Vera (visto poco prima all’opera nelle fila dei suoi Fates Warning) al basso. Dopo un soundcheck macchinoso ed infinito, i cinque danno il via alle danze con My Acid Words, che manifesta subito le costanti del concerto: problemi alla chitarra di Broderick e soprattutto al microfono di Warrel Dane, il cui volume va e viene e provoca non poco fastidio all’ormai rossocrinito singer. Per il resto, il livello tecnico è impressionante e l’esecuzione dei brani praticamente ineccepibile. Dane annuncia che suoneranno dei pezzi che non propongono di frequente e così ecco comparire nella scaletta canzoni come Deconstruction, Beyond Within e Who Decides: scelta coraggiosa, soprattutto visti i presupposti. Infatti, il set dei Nevermore è durato solo 55 minuti, invece dell’ora e un quarto prevista, a causa dei ritardi accumulati nel corso della giornata e dei problemi di stomaco di Dane, che pare stessero portando all’annullamento dello show. Incredibile la prova di Jeff Loomis, un autentico mostro che regala assoli perfetti, con giusto un paio di minuscole sbavature che avrà notato solo chi, come il sottoscritto, è stato tutto il tempo impalato ad osservarlo con ammirazione. Si prosegue con I, Voyager ed un trittico tratto dall’ultimo studio album This Godless Endeavor, prima del gran finale sorprendentemente affidato a No More Will. Dane saluta il pubblico e la band si defila rapidamente, tanto che in molti hanno pensato ad un bis, che purtroppo non c’è stato. Dispiace per la durata ridotta del set, per la mancanza di alcuni classici e per i problemi tecnici e fisici incontrati, ma rimane una performance eccellente dal punto di vista strumentale e buona anche dal punto di vista vocale, da sempre nodo cruciale dei live nevermoreani. Indubbiamente da rivedere nel contesto più consono e senza tutte le limitazioni che hanno tarpato le ali ad una performance che avrebbe potuto essere migliore se i presupposti fossero stati diversi.
SEBASTIAN BACH
Welcome Bach Sebastian!, recitava uno recato da alcuni fan del singer canadese, ed in effetti Sebastian Bach ritorna, nella sua veste di solista, dopo aver tenuto a battesimo, sempre come headliner, l'esordio dell'Evolution, due annui fa. Più che l'attesa della novità, come era stato per il ritorno di Cynic e Fates Warning dopo una lunga assenza, c'era la voglia di rivedere l'ex-Skid Row (se mai è stato ex, vista la set-list che abitualmente propone), dopo la stellare prova di due anni fa. Fughiamo subito le speranze, dicendo che la sua performance, benchè di buon livello, non ha raggiunto i picchi della prima edizione del festival; infatti, a parte Metal Mike ad una delle due asce, la formazione è interamente rivoluzionata e si sente che l'affiatamento non è lo stesso. Ottimi musicisti, chiariamolo, ma le presenze di DiGiorgio e Jazormbeck sono difficilmente rimpiazzabili. La set-list, com'era facile prevedere (anche se è in uscita il nuovo album solista), è totalmente incentrata sul suo lavoro con gli Skid Row: Big Guns, Monkey Business, Slave To The Grind, I'll Remember You, 18 And Life. Tutti classici, tutti grandi brani, eseguiti bene, ma non con la straordinaria perizia tecnica (qualche sbavatura, omissione di certi acuti e parti più difficili sui registri alti) di cui è in grado Bach. A sopperire a questo, una prova da grande intrattenitore, capace di tenere il pubblico nel palmo della mano, con carisma ed anche numeri quasi circensi ( il 'giro del mondo' con il microfono fatto roteare rimane una delle chicche spettacolari di Bach). Tra alcuni alti e qualche basso, il concerto scorre via gradevole per il pubblico, fino a quando non avviene il 'fattaccio', altra macchia sul curriculum di un festival che come impostazione di base sarebbe uno tra i meglio organizzati d'Italia. Il ritardo accumulato prevederebbe il termine del concerto allo scadere della mezzanotte, ma Bach continua per oltre un quarto d'ora, incurante dei richiami dell'organizzazione che lo lascia proseguire fino all'infuocato finale di Youth Gone Wild. A 30 secondi dalla fine del brano, senza nessuna spiegazione, la corrente viene tolta assieme alle luci, con Bach che imperterrito, accompagnato solo dalla batteria e dal pubblico continua, fino all'abbandono del palco del singer, abbastanza inviperito. La conclusione peggiore per un festival che parte bene ma ogni tanto si perde tra alcune pecche abbastanza grossolane, con conseguente malumore del pubblico.
Terza edizione che non si conclude benissimo. L'Evolution ha grandi numeri, ma deve ancora maturare sotto alcuni aspetti. Si spera nel prossimo anno, con i pregi conservati da quest'edizione ed aggiustamenti basati sugli errori di quest'anno. Alla prossima.
Report - Andrea "Vash_Delapore" Evolti e Luca "Thrasher" Trifilio
Foto - Francesco "kekkohell" Rizzo