- Kristoffer Rygg - voce
- Jørn H. Sværen - chitarra, basso, tastiere, sintetizzatori, effetti
- Tore Ylwizaker - batteria, violino, sax
Guests:
- Bosse – assolo di chitarra chitarra in "For the Love of God"
- Carl Michael Eide (Czral) - batteria in "Operator"
- Jeff Gauthier – violino in "Your Call"
- Håvard Jørgensen (Haavard) - chitarra in "Dressed in Black", "For the Love of God" e "Your Call"
- Mike Keneally – chitarra in "Christmas", assolo in "Operator"
- Andreas Mjos – vibrafono in "Blinded by Blood" e "In the Red"
- Maja Ratkje – cori in "Your Call"
- Knut Aalefjær – batteria e percussioni su "For the Love of God", "Christmas" ed "Operator"
1. Dressed in Black
2. For the Love of God
3. Christmas
4. Blinded by Blood
5. It Is Not Sound
6. The Truth
7. Your Call
8. In the Red
9. Operator
Blood Inside
L'esperienza maturata con A Quick Fix of Melancholy e la colonna sonora del film Svidd Neger funge per gli Ulver da terreno fertile in cui fare il riepilogo delle proprie idee, riorganizzarle e assemblarle per ottenere qualcosa di nuovo. Il risultato è Blood Inside, opera di sintesi di varie tendenze musicali diverse esplorate dai norvegesi, ma anche una negazione (nell'approccio) e rifondazione della musica del gruppo.
L'album infatti segna un'ulteriore svolta in confronto al precedente full-lenght Perdition City e alle parentesi degli EP. Rispetto al primo infatti vengono abbandonate le ritmiche downtempo e gli arrangiamenti cessano di essere quasi esclusivamente elettroniche per rimescolare ed equilibrare la matrice sintetica con quella "acustica", soprattutto nell'introduzione di una batteria partecipe e vigorosa nello scandire l'atmosfera alienata che aleggia nel disco (in contrapposizione al minimalismo glitch di Teachings in Silence). Le stesse atmosfere, comunque cupe, si fanno meno desolate e "metropolitane", per dipingere piuttosto menti tormentate e angosciate, cercando sia una qualche forma di empatia con gli umori più dolenti che una fredda e a tratti nichilista disamina sui mali sociali in cui viviamo, da cui si giunge ad un concept raccontato tramite l'ideale colonna sonora dell'ospedale psichiatrico addetto a prendersi cura di questa società decadente.
Lo stesso titolo dell'opera sembra fin dalla copertina alludere ad una sorta di follia sanguigna che, spinta dal disordine mentale e dall'annientamento (spirituale e mentale) a cui si sarebbe soggetti nella civiltà attuale, imbratta le mani e acceca la vista.
Gli Ulver giungono così ad una sorta di avant-rock introspettivo e psichicamente teso, incentrato sulla "violenza" psicologica e su di un'attitudine compositiva dagli intrecci dinamici: filtri vocali, stratificazioni tastieristiche, percussioni meccaniche, inserti spettrali, armonie raggelanti e ritmiche sempre più angoscianti, il tutto smontando e mescolando fra di loro dark rock, progressive, ambient, umori post-industriali, timidi accenni di orchestrazioni e persino campionamenti jazz.
Il lavoro in fase di produzione, sotto l'egida di Ronan Chris Murphy, è notevole e fondamentale per mantenere compatto e coerente quest'insieme di suoni agghaccianti, distensioni afflitte, deviazioni mentali e spettri del subconscio; senza di esso si avrebbe solamente un collage confuso di emozioni distorte e casi clinici inaffrontabili, tanto che lo stesso Blood Inside è come un castello di carte che si regge in bilico. Nonostante la profondità psicologica e la cura certosina nei ricchissimi arrangiamenti, c'è sempre la sensazione che fra le righe ci sia al tempo stesso troppa carne al fuoco e non abbastanza reali connettori comuni nel totale, e che il disco dopo violenti climax epici o momenti di pura estasi auto-distruttiva, possa all'improvviso crollare.
Per molti, quindi, quest'album potrebbe suonare nel complesso dispersivo e confusionario, in tal caso togliete 10 o anche 20 punti al voto finale.
Si comincia quindi con i synth ululanti e gli psicotici pianoforti della lunga Dressed in Black, opening tenebrosa che mette subito in mostra l'aura da instabilità mentale che pervade l'album. Sul finire ciò svanisce in una spettrale uscita sepolcrale che anticipa invece For the Love of God, più attenta al lato spirituale degli individui, ma sempre sottolineandone la decadenza e la desolazione. L'assolo centrale di chitarra elettrica è emblematico, poiché ricrea un efficace effetto dolce-amaro fra le note bluesy da una parte e l'insieme spietato di batteria, strings e samples vari di sfondo.
Christmas inizia con una dolcissima ed evocativa intro "natalizia" che sembra quasi un raggio di Sole nell'oscurità fino ad ora incontrata; ma rapidamente si riprecipita in un vortice schizofrenico di degenerazione mentale, con attacchi taglienti di tastiere e percussioni particolarmente frenetiche. Il testo è invece un adattamento di un poema del poeta Fernando Pessoa.
Si cambia totalmente registro con gli abissi (mentali?) dipinti dalle stratificazioni di strings di Blinded by Blood, puro dark ambient dei più inquietanti e terrificanti. Svetta soprattutto la superba prestazione vocale, con una prima parte soul a cui fanno seguito acuti che trafiggono il cuore; il brano è anche una perfetta colonna sonora per un viaggio nelle profondità degli oceani o nelle fredde distese vuote del cosmo.
It Is Not Sound è un gelido dramma urbano, dove gli archi secchi squarciano l'aria in cui si insinuano i riempimenti atmosferici in preparazione di un'esplosione robotica graffiante ed estremamente accattivante. C'è spazio anche per un divertissement finale, nella forma di una citazione al sintetizzatore della Toccata e fuga in Re minore di Johann Sebastian Bach, che fa assumere al pezzo i tratti di un'avanguardia caleidoscopica, eterogenea, ma anche confusa e confusionaria.
A questo punto The Truth, con i suoi deliri rumoristici di percussioni e i continui accumuli di samples vocali, suona ancora più frastornata e indefinita, a discapito dell'incisività. Invece la relativamente breve In the Red è una parentesi electro/jazz allucinata che poteva essere espansa ed approfondita maggiormente.
Per fortuna il binomio finale è forse l'apice di intensità del disco: l'attesa straziante di Your Call, elettronica, distorta e alienante, lascia con il fiato sospeso quando nel finale continua a ripetersi il solo squillo di un telefono a cui nessuno risponde, facendo rabbrividire nel silenzio e nella solitudine. Quando alla fine viene data risposta, fulminea parte la distruttiva Operator, con strings dissonanti e batteria impetuosa e portare alle massime conseguenze la rappresentazione musicale della pazzia, come se la stritolante ansia del brano precedente giungesse ora al suo culmine con un raptus improvviso e inarrestabile.
Naturalmente non si tratta di qualcosa si innovativo in senso assoluto che rivoluziona i precedenti canoni musicali, anzi, certe patterns richiamano abbastanza i King Crimson, e diciamo questo perché a volte il pubblico ha un po' gonfiato lo spessore ideativo di Blood Inside, ma questo non impedisce di trovarsi di fronte ad un lavoro personalissimo, profondo e spiazzante - pur con le riserve prima citate.
Nutrita la lista di ospiti, che contribuisce ad arricchire un album di certo dotato di forte enfasi.