- Quorthon - Voce, Chitarre elettriche ed acustiche, Cori, FX
- Kothaar - Basso elettrico
- Vvornth - Batteria, Percussioni
1. Shores In Flames
2. Valhalla
3. Baptised In Fire And Ice
4. Father To Son
5. Song To Hall Up High
6. Home Of Once Brave
7. One Rode To Asa Bay
8. Outro [nascosta - non dichiarata nella tracklist]
Hammerheart
Quorthon, dopo l’uscita dell’ottimo ma transitorio Blood Fire Death, decide di proseguire su una sua personale strada concettuale, peraltro in futuro adottata da moltissime altre band: se la religione cristiana e i suoi dogmi rimangono comunque suoi avversari, essi non sono più combattuti attraverso il concept satanista che caratterizzava i suoi primi tre dischi e in minima parte anche Blood Fire Death. L’argomento viene infatti rigettato in quanto figlio egli stesso della dottrina cristiana. Quorthon riscopre quindi i miti vichinghi e basandosi su di essi e su quel periodo storico crea il suo quinto album, Hammerheart, che rimarrà l’apice della pur eccelsa discografia dei Bathory.
La trasformazione di Bathory continua anche musicalmente: il lato più grezzo e violento della sua musica viene definitivamente accantonato e sostituito dal primo vero esempio di epic/viking. Infatti Quorthon unisce un certo tipo di Epic Metal americano anni ’80 a sonorità più fredde e taglienti, eredità del suo passato black. Il risultato?
Brani lunghi, cori epici, chitarre acustiche che s’intersecano al riffing, batteria cadenzata, voce (per la prima volta completamente in clean) grezza, rude e spesso stonata, rumori di villaggi, mari e animali: insomma, tutto ciò per cui Bathory è diventato famoso e apprezzato in ambito Viking.
Tra il giugno e l’agosto del 1989 Quorthon entra nuovamente negli oramai leggendari Heavenshore Studios per registrare Hammerheart; ed alcuni particolari riguardanti la registrazione, raccontati da Quorthon nel booklet di Blood on Ice, sono davvero agghiaccianti: isolamento sonoro assente, batteria ondeggiante su un pavimento ricoperto da uno strato di ghiaia grezza spesso tre piedi, lampadina da tavolo come unica fonta di luce, lead vocals registrate nel bagno, parti d’automobili sparse in giro…
Da una situazione del genere non ci si poteva certo aspettare una qualità sonora perfetta ed infatti, pur non essendo al livello infame dei primi LPs- la produzione è decisamente “ruvida”. D’altronde è una caratteristica peculiare del Bathory-sound e dopo un po’ che ci si è fatti l’orecchio, certi difetti passano in secondo piano rispetto alla proposta musicale, di livello memorabile.
Con Shores in Flames e il rumore delle onde che s’infrangono sul bagnasciuga di una spiaggia inizia il nostro viaggio indietro nel tempo: l’intro acustica ci presenta un guerriero nordico che respira la brezza primaverile e ascolta il rumore del freddo mare, preparandosi a salpare con la propria nave, salutando i propri cari e la propria terra (chissà da chi hanno preso l’ispirazione gli Amon Amarth per la loro “The Dragon’s Flight Across the Waves”…). L’arrivo di un riff potentissimo fa decollare la canzone, un gioiello di epicità lungo 12 minuti.
Dopo che i vichinghi hanno lasciato le spiagge in fiamme dietro di loro, assistiamo all’ottima Valhalla, nella quale Quorthon ci descrive il palazzo di Odino. Emozionante come l’intro acustica venga coperta prima dal suono dei corni, poi da quello delle chitarre e della batteria. La canzone presenta motivi d’interesse per merito di una ritmica interessante e degli ottimi cori che sostengono la voce solista durante il bridge, salvo trasformarsi in protagonisti durante il refrain.
La terza traccia è Baptised in Fire and Ice, nella quale il protagonista racconta il momento della propria nascita ("I can almost recall the scene – When he held me high up towards – the most beautiful sky ever seen"). Caratterizzata da un chorus trascinante e da una devastante accoppiata batteria-chitarra nella parte iniziale, Baptised in Fire and Ice è il preludio, liricamente parlando, alla seguente Father to Son.
Particolarmente commovente, la quarta perla di Hammerheart è un brano di eccezionale intensità, che racconta come un padre insegni a suo figlio a tramandare i valori dei propri antenati:
“Promise me my son to always
Cherish what is home to you
What is the truth and to
Defend all of your race
Never lose the values
I have taught to you
Always keep your moral and ideals
Do never bring your flag disgrace
…
Oh, my child please take heed
Through you I am granted to live on
These words more worth than you will ever know
Make them live on from Father to Son”
Il brano inizia una scalata ascendente del disco che culminerà con l’ultima traccia; Father to Son infatti, aperta dal pianto del neonato e dai rumori dell’accampamento vichingo, è graziata da un cantato tanto sofferto quanto ispirato, e da un continuo trasformarsi da cupa e ossessiva durante le strofe, a meravigliosamente rilassante e positiva durante i ritornelli.
Song to Hall Up High, momento calmo e acustico del disco, è la definitiva prova di come la tecnica nel cantato, in ambito Bathoriano, conti meno di nulla: la voce di Quorthon sembrerebbe fuori luogo come non mai in qualsiasi altro contesto, ma in questa preghiera si rivela assolutamente struggente ed emozionante.
Mentre le voci dei gabbiani si fanno udire sotto i sognanti arpeggi, un coro accompagna Quorthon per cantare l’ultima strofa, e il disco raggiunge uno dei suoi momenti più suggestivi.
Il sottofondo di tastiera che ha accopagnato Song… fa da collegamento per la seguente, eccelsa, Home of Once Brave: un epico, cadenzato, doveroso omaggio di Quorthon alla sua terra, anticipazione di quelli che saranno i suoi ultimi due dischi (i Nordland). Estasiati dalla grande interpretazione, veniamo senza nemmeno accorgercene trasportati sulle cime delle montagne e sui ghiacciai della Svezia, fino a quando il pezzo termina, utilizzando “in prestito” il finale di "For Whom the Bells Tolls" dei Metallica.
Settima ed ultima traccia, One Rode to Asa Bay è spesso indicata come la migliore mai composta dai Bathory: la validità o meno di questa affermazione sarà giudicata da ogni ascoltatore, ma c’è oggettivamente da dire che questo è un pezzo che ha fatto storia.
L’apertura è lasciata al munnharpe e a degli effetti registrati, fino a quando un coro e un malinconico arpeggio irrompono in tutta la loro grandiosa genialità. L’arrivo dei cristiani in Svezia e la cancellazione delle tradizioni pagane vengono raccontate da un Quorthon mai così ispirato, e per tutti e dieci i minuti di One Rode to Asa Bay si rimane incantati a seguire come questo menestrello giochi con le nostre emozioni. Indescrivibile.
La seconda parte della trilogia “Viking” di Bathory (cui si aggiungeranno Blood on Ice e i due Nordland, per un totale di sei opere d’assoluto valore in questo genere di nicchia) è la pietra miliare del genere stesso, un masterpiece di livello altissimo, che può piacere anche agli amanti dell’Epic ottantiano come a quelli del Black anni ’90.
Capolavoro è l’unica definizione possibile per un lavoro di questa portata. E non considerate questo voto come un’omaggio alla scomparsa di Quorthon, in quanto rivalutare un’opera solo per la scomparsa o l’abbandono di chi l’ha creata non è nel mio stile, né in quello di tutti coloro che hanno sempre apprezzato ed adorato questo disco, favoloso già di suo. Un vero gioiello.
Ultima considerazione: se potete, recuperate la vecchia edizione e non la recentissima ristampa del lavoro, in quanto quest'ultima possiede una colorazione della (originariamente splendida) cover più scura e rossastra ed ha inoltre le tracce 5 e 6 unite in un unico brano.