Voto: 
5.8 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Etichetta: 
Century Media
Anno: 
2010
Line-Up: 

- Mikael Stanne - voce
- Niklas Sundin - chitarra
- Martin Henriksson - chitarra
- Daniel Antonsson - basso
- Anders Jivarp - batteria
- Martin Brandstrom - tastiera

Tracklist: 


1. Shadow in Our Blood
2. Dream Oblivion
3. The Fatalist
4. In My Absence
5. The Grandest Accusation
6. At the Point of Ignition
7. Her Silent Language
8. Arkhangelsk
9. I Am the Void
10. Surface the Infinite
11. Iridium

Dark Tranquillity

We Are the Void

Ritornano gli svedesi Dark Tranquillity, veri e propri veterani della scena metal nordica, con We Are the Void, nono album studio di una carriera ormai ventennale.
Il disco, scritto nel secondo semestre 2008, vede l'entrata in formazione del nuovo bassista Daniel Antonsson, subentrato a Nicklasson partito per motivi personali.
L'attesa è stata sicuramente molto alta per via della popolarità enorme del gruppo, punto di riferimento importantissimo in ambito metal e circondato da aspettative sempre più crescenti. Troppo crescenti, forse, per le effettive ambizioni del gruppo.

Senza girarci troppo attorno, si tratta del disco più debole e meno ispirato della carriera degli svedesi (nel complesso anche più di The Mind's I che almeno aveva alcune perle melodiche che risplendevano molto). Seriamente, Stanne & soci dopo tanti anni sembrano ormai essere precipitati in una fase di stagnazione creativa fulminante, che li porta semplicemente a svolgere il compitino con un lavoro di mestiere, per carità sì magistralmente eseguito, ma annacquato da composizioni eccessivamente monotone e stantie, come se si fosse privilegiata la forma alla sostanza.
Se magari è vero che il gruppo stia procedendo per inerzia lungo un sentiero collaudato e sicuro che loro stessi hanno tracciato, un qualcosa che potrebbe almeno garantire delle produzioni di buona fattura anche se non si diventa punte di diamante della scena; è però fin troppo deludente la carenza del songwriting, non solo scontato e prevedibile come mai era capitato, ma anche poco incisivo di suo, con alcuni dei riff meno coinvolgenti e dei chorus più ripetitivi in assoluto del gruppo. Con una produzione oltretutto relativamente meno ricercata, mancano anche molti dei contrappunti sonori che impreziosivano Fiction e i refrain graffianti di Character, che pure non erano certo innovativi.
La sensazione è che i Dark Tranquillity si siano limitati ad operare al massimo per non fare una fotocopia precisa, giusto con qualche piccola influenza qua e là (qualcuna più americaneggiante, qualcuna più europea) ed un timido accenno a mettere la tastiera maggiormente in primo piano, seppur di poco, come boccate d'ossigeno sfiatate per variare un minimo la riscaldata minestra.
Ma a discapito di questo i momenti in cui sembra di sentire la solita solfa abbondano e si assiste persino a ripetizioni di uno stesso riff, in un generale riciclo di stilemi assolutamente necessitanti di un'immediata iniezione di nuova linfa vitale. Menzione particolare va per il lato elettronico/tastieristico, che urla ad alta voce il suo sottoutilizzo e il potenziale inespresso: il talento di Martin Brandstrom andrebbe impiegato con più partecipazione e ambizione, piuttosto che per ripetere meccanicamente una breve sequenza melodica di contorno... che inoltre svilisce la concretezza del fraseggio stesso, come se non si riuscisse fare altrimenti per generare singulti emotivi o picchi melodici con idee più concrete da mettere dentro la canzone.

L'iniziale Shadow in Our Blood presenta giochi sonori arabeschi molto interessanti, ma purtroppo vengono relegati ad un mero sporadico contorno: il pezzo alla fine si risolve in un melodic death metal veloce ed incalzante ma anche molto piatto e ripetitivo, salvato solo dallo stile personale del gruppo alla base di tutto - certo molto più apprezzabile di tanti cloni.
La successiva Dream Oblivion esplode subito con il riff principale, un groove metal magmatico sostenuto dal pedale frenetico e dagli inserti di contorno (refrain elettronici, attacchi melodeath, distensioni più melodiche). Nulla però che non sappia di già sentito e le piccole intuizioni melodiche alla fine rimangono solo accennate.
Accade lo stesso con The Fatalist, che però suona comunque più ispirata: c'è un rimescolamento di sonorità più vicine alla Gothenbug degli anni '90 e altre ben più moderne, usando come collante la tastiera atmosferica di Brandstrom, impegnata ora in edificare soundscapes malinconici e ora ad accompagnare i riff con note esotiche.
Invece In My Absence è semplicemente uno stanco melodic death metal, di quello a tratti più melodic che death, in ogni caso fin troppo banale. In confronto suona enormemente più apprezzabile il parziale esperimento di The Grandest Accusation, dove riff secchi e bassi presi dall'alternative metal americano vengono impiantati sul consueto stile DT, quindi con giochi di tastiera melodica di contorno e attacchi tenui ma decisi di chitarra che evolvono in sfuriate più rocciose seguite da distensioni melodiche e atmosferiche. Nulla che faccia gridare al miracolo, ma almeno è la canzone che suona relativamente più fresca fino ad ora. Peccato che la voce pulita di Stanne sembri troppo di maniera, come messa per accontentare i fan.
La successiva At the Point of Ignition sviluppa questa strada indugiando però troppo con i muri sonori di sostegno al semplice motivo principale di tastiera, comunque piacevolmente melodico (anche se è palese che senza la solita sequenza di note di tastiere i chorus si assomiglierebbero troppo suonando più che anonimi), e finendo per suonare un po' prevedibile.
Her Silent Language riprende atmosfere romantiche che non si sentivano dai tempi di Projector (eccetto che per qualche nostalgica parentesi su Fiction), tant'è che la voce pulita prende le redini del brano salvo poi lasciar posto al growl nel ritornello. Ma è tutto troppo scontato.
Arkhangelsk è probabilmente il brano migliore del lotto assieme all'ultimo per via del ritornello oscuro e terrificante, reso tale dalle inquietanti tastiere di sottofondo alle distorsioni ronzanti e al growl rabbioso di Stanne. Non mancano i soliti stereotipi coniati dagli svedesi, come i brevi intermezzi atmosferici o il connubio potenza+melodia.
Ora però c'è una brusca caduta con I Am the Void, che sembra una b-side delle sessions di Character, e Surface the Infinite, che almeno ha qualche gioco melodico in più a rendere più vario il discorso; certo, se si cerca proprio questo allora si rimarrà soddisfatti, ma da un gruppo come i Dark Tranquillity che ci avevano abituati a cambiare e a non concedere compromessi ci si aspettano molta più ispirazione, inventiva e freschezza (la classe invece almeno rimane, per fortuna).
Conclusione affidata ad Iridium, introdotta da un arpeggio gotico vicino ai Katatonia di metà carriera ad accompagnare la voce pulita mesta e misteriosa di Stanne, impegnata in linee vocali molto più ricercate di un mero ripescare un tòpos stilistico per fare contenti i fan. L'esplosione distorta del ritornello invece ricorda di più gli Hypocrisy. La lunga consueta coda atmosferica di chiusura in ogni caso termina il disco in maniera egregia con evocatività e malinconia. Si tratta di una delle canzoni migliori grazie alla sua maggiore raffinatezza e ricercatezza, fattori in ogni caso amplificati anche dal contrasto con pezzi molto più banali come i due precedenti.

Ad assistere dall'alto, è evidente la parabola discendente dei Dark Tranquillity nel corso degli ultimi dischi, da cui speriamo che loro si risollevino con un disco molto più efficace, vitale e creativo. Il loro percorso nella seconda metà di carriera è iniziato con la potenza coinvolgente e irresistibile di Damage Done, speriamo che se We Are the Void è la sbiadita chiusura di questa fase allora è perché gli deve seguire un nuovo ciclo, quello finale, speranzosamente molto più intrigante. Perché dai primi della classe non ci si aspettano insufficienze per compitini fatti di maniera, ma le lodi.

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