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- Travis Morrison - vocals, guitar, keyboards
- Jason Caddell - guitar
- Eric Axelson - bass, keyboards
- Joe Easley - drums
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1. A Life of Possibilities
2. Memory Machine
3. What Do You Want Me to Say?
4. Spider in the Snow
5. The Jitters
6. I Love a Magician
7. You Are Invited
8. Gyroscope
9. The City
10. Girl O'Clock
11. 8½ Minutes
12. Back and Forth
Emergency & I
I Dismemberment Plan sono stati portavoce di una forma mentis che dal post-punk in poi ha generato qua e là nel tempo dei frutti dimenticati troppo in fretta; autentici dadaisti del nostro tempo, fieri testimoni del fatto, non ancora pienamente avallato, che fare musica veloce non significa perdere per strada i dettagli. E soprattutto, non significa necessariamente fare solo musica veloce.
Nell'opera dei D-Plan regna l'eclettismo, l'incapacità programmatica di mantenere una coerenza sul piano musicale per l'intera durata di un long-playing; l'abuso dell'effetto sorpresa a far piombare l'ascoltatore provato da rumorose sfuriate di due minuti in apnee di quasi-catarsi, per poi ridestarlo senza preavviso con fulminei accessi d'isteria quando non con accattivanti aperture all'elettronica e alla dance. Il disturbo, l'alienazione, la sfiducia nel presente e nel futuro, la mancanza di orientamento nella realtà sono i cardini delle tematiche; la predilezione verso codici espressivi spesso oscuri e impenetrabili è spia di un mood cerebrale e di una passione non troppo celata per la letteratura sci-fi. Fondamentale nella produzione della band è anche il gusto nella scelta di grafica e copertine smaccatamente arty, frammenti di creatività moderna in grado di dare nuovo lustro ai fasti art-punk degli Wire e di far vivere il disco fin dal primo impatto, quello visivo, estetico, che si registra sulla confezione del supporto analogico e/o digitale.
Un po' di cronaca: Travis Morrison (voce e chitarra), Eric Axelson (basso), Jason Caddell (chitarra) e Steve Cummings (batteria) formano i Dismemberment Plan quando ancora frequentano l'high school nella loro Washington DC; già, proprio quella che era stata la capitale del post-hardcore e che aveva dato i natali a Rites of Spring, Unrest e agli immortali Fugazi a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, nonché prima ancora ai Minor Threat, gonfalonieri dell'hc di marca East Coast.
Emergency & I, terzo album e vero e proprio breakthrough per il gruppo del District Columbia, viene dato alle stampe verso la fine del 1999 per l'indipendente etichetta locale DeSoto Records, dopo che le prime uscite ! ('95) e The Dismemberment Plan Is Terrified ('97) hanno già fatto guadagnare ai nostri la reputazione di nuovi alfieri del sottobosco hardcore/punk-rock americano, in linea diretta con il discorso portato avanti nelle varie generazioni da REM, Hüsker Dü e in assetto più deciso da Fugazi e Jawbox. Ma il progetto D-Plan è ben più lungimirante e Travis Morrison è personaggio che guarda ancora più a est, verso certi lavori partoriti in Albione sul calare degli anni Settanta da band che, nel giro di un paio di stagioni, avevano già voltato le spalle alle rozze strimpellate per percorrere una strada orecchiabile, verso il confezionamento di veri e propri gioiellini pop - vedi Magazine, XTC, Josef K e, per certi versi, i più dark-oriented Wire e Fall.
Insomma, il materiale è esplosivo: chitarre distorte, effettistica da studio di ogni genere e sorta, sezione ritmica da leccarsi i baffi (merito anche del drumming martellante e pulito come pochi di Joe Easley, ingaggiato subito dopo l'esordio datato '95) e un frontman nato per stare sul palco, dotato di una voce del tutto singolare, a tratti profonda e impassibile ma pronta a modularsi in un fiat al più stridulo e nevrotico dei lamenti. Tant'è che l'autorevole Pitchfork Media grida al miracolo non appena Emergency & I vede la luce, fregiando il disco di una valutazione vicina al massimo e contribuendo così alla vertiginosa ascesa di notorietà da parte di quelli che per molti sono già gli istitutori del movimento dance-punk (e la designazione fa un po' sorridere e un po' no, se si pensa a quanto i leggendari A Certain Ratio siano stati dimenticati; oltre al fatto che per ballare i Dismemberment Plan ci vuole oggettivamente del fegato).
A Life of Possibilities è il prologo dell'album e più o meno una dichiarazione d'intenti: incipit marziale con tanto di basso in overdub su cui il falsetto di Morrison stona magnificamente, quindi break totale a dare l'illusione che il pezzo sia già finito e improvvisa tirata prima di un finale che riprende le fila della narrazione claudicante più che mai, in un quadretto degno dei Built to Spill sotto acidi. Memory Machine è un'ode alla fantascienza più visionaria duettata dal leader e da una specie di C1-P8 direttamente da Guerre Stellari e fa saltare dalla sedia con il suo incedere math-rock molto su di giri; il testo sembra provenire dalle pagine di Philip K.Dick - "There are times I think eternal life ain't such a bad gig / Smoke all you want and see the planets / If and only if they find a way to cure the longing / The distant panic". Così, dopo aver lanciato le prime avvisaglie delle vette d'impeto a cui possono elevarsi, i Dismemberment Plan lasciano da parte la frenesia per inanellare tre episodi che si calano progressivamente negli angoli più bui dell'indole umana. Prima la grottesca What Do You Want Me to Say?, che se dal lato musicale smorza solo timidamente i toni, da quello dichiarativo si pone come la bizzarra confessione di un uomo che sembra avere più di un problema con la sua identità, fin dal primo, esemplare verso che recita "I've lost my membership card to the human race" - semplicemente geniale. Quindi Spider in the Snow, che azzarda synth lontani ed eterei a-là New Order su un impianto ritmico che parla funk, mentre Travis Morrison declama, più che cantare, un rassegnato sermone per esorcizzare i fantasmi del proprio passato. Infine The Jitters - vero momento catartico dell'opera - a suggellare il trittico: una liquida ballata per chitarre sofferte e percussioni appena sfiorate che sprofonda negli abissi slo-core di Low e Red House Painters, dipingendo un ritratto malato e opprimente della società post-industriale. Un tiro mancino che fa male al cuore, subito annullato dal violento assalto sulla batteria da parte di Easley che apre il punk folgorante di I Love a Magician, veloce e possente da provocare le convulsioni; e, come se non ci fosse già abbastanza carne al fuoco, al giro di boa del long-playing affiora anche un'inattesa passione per l'elettronica minimale: You Are Invited è infatti un'ironica cantilena costruita su una drum-machine che coglie in flagrante i D-Plan ad attingere senza tanti complimenti all'immaginario Kraftwerk, a tratti mutevole in un college rock dai toni assai più accomodanti. Gyroscope condensa tutto il gusto pop della band in una sparata che rasenta appena i due minuti e mezzo, intarsiata di invitanti tastierine che strizzano l'occhio alla psichedelia più easy, facendo dei nostri una sorta di Dukes of Stratosphear con il piede sull'acceleratore; The City è invece una malinconica, desolata dedica alla natìa Washington che svela un Morrison all'apice del suo pathos espressivo, ora seducente e riflessivo, ora acceso nell'animo di una rabbia cupa che rimane strozzata tra le corde vocali. Non immagineremmo mai che stesse per strappare un biglietto per il manicomio: già, perché la seguente Girl O'Clock è un folle tappeto sonoro su cui il frontman si diverte ad andare totalmente fuori di testa, trasponendo stavolta il malessere contemporaneo sul piano sessuale e prodigandosi in un'alternanza di falsetti e urla isteriche in preda alla balbuzie più maniacale mai udita ("If I don’t have s-s-s-s-s-s-sex by the end of the week, I’m g-g-g-going to die / If I don’t feel a p-p-p-p-pair of s-s-s-soft l-l-l-l-lips on my own, oh, I’m going to hang my head and cry"). Il pezzo è musicalmente una danza tribale e sgangherata che esalta le prodezze di un Joe Easley versione octopus, letteralmente posseduto, e rende a vent'anni di distanza una variante monstre del Pop Group di Mark Stewart, meno ancestrale e più delirante. 8½ Minutes non si cura di mitigare il clima dopo l'apologia dell'eccesso, ma anzi gioca a confondere i sensi con il solito montaggio schizofrenico di funk ridotto all'osso e diavolerie elettroniche, mostrando solo nel chorus un accenno d'ordine e di coerenza tra gli strumenti; al solare groove di Back and Forth dunque il compito di traghettare l'avventore musicofilo alla fine del viaggio nella maniera più comoda possibile, con grande sforzo di Travis Morrison che acconsente, solo per questi cinque minuti conclusivi, a svestirsi della sua incurabile paranoia per mostrare il lato più umano e civile di sé.
Al congedo da questo universo di ossessioni in miniatura non rimane che leccarsi le ferite, residui sanguinanti di una battaglia quotidiana tra l'uomo e la sua dolorosa emergenza di esistere, in un mondo fin troppo freddo e cieco alle istanze dei suoi figli. Il disco tra le mani, uno sguardo alla copertina, come a voler sviscerare il profondo significato di tanta malcelata angoscia. Nel più impenetrabile dei De Chirico, si staglia sulla profondità del campo il mostruoso grido di un pupazzo meccanico, fragile assemblaggio di geometrie metalliche avulse dal colore e dalla luce custodita là in fondo, oltre le piramidi, al principio della civiltà e del tutto. Ai margini di un passato e di un'innocenza perduti per sempre.