- Justin K. Broadrick - Voce, Chitarra, Synth, Programmazione, Produzione
1. Infinity (49:31)
Infinity
Senza compromessi, solo davanti allo specchio della propria irrequieta essenza, Justin Broadrick continua ad andare avanti e lo fa con la solita, shockante velocità realizzativa. Nel 2008 era stato il turno dei due split album con Battle Of Mice ed Envy e della prosecuzione del fertile sodalizio artistico con Eluvium (Why Are We Not Perfect?); ma chi ovviamente desiderava un vero e proprio full-lenght ha dovuto attendere che le porte del nuovo anno si spalancassero per permettere il lento sopraggiungere del monolitico Infinity, terzo album ufficiale targato Jesu (sebbene Broadrick per sua stessa ammissione non lo consideri tale, bensì solo come un esperimento di mezzo) terza alienante confessione (che segue di due anni il precedente Conqueror) di un musicista instancabile.
Infinity è innanzitutto l'opera più compatta e mastodontica nell'intera discografia di Broadrick: basato su un'unica canzone di 49 minuti e mezzo, l'ultima release dei Jesu è un colosso in cui ruvide impennate sludge e lievi distensioni atmosferiche si alternano in un linguaggio meno cupo del solito ma costantemente avvolto in una dimensione di assoluto soffocamento percettivo. Scarnificata la tavolozza timbrica e rallentati i tempi fino all'osso, il linguaggio Jesu si mostra qui in una veste mai prima d'ora così (ritmicamente) funerea e (atmosfericamente) sottile e minimalista.
Perse le dirompenti allucinazioni dell'indimenticato gioiello Jesu, le più sognanti dilatazioni di Conqueror oltre che quel magnifico contrasto di distorsioni al vetriolo e improvvise aperture "pulite" splendidamente incastonate in Heart Ache, Infinity sembra un fiume piatto che scorre senza che nulla possa smuoverne anche minimamente la corrente: estremamente lineare e fin troppo ripetitivo nel suo spossante protrarsi a suon di robusti droni chitarristici e improvvise scariche industriali, l'ultimo colosso firmato Broadrick fatica (in un modo come non mai evidente) a trascinare e a coinvolgere l'ascoltatore, perdendo smalto tanto nella varietà strumentale - tutto il lavoro, anche a causa della sua lunghezza, sembra una continua fotocopia di se stesso in leggero movimento - quanto nell'ispirazione melodica, stantia e mai veramente toccante.
Eppure la partenza di Infinity prometteva bene e meglio, con quei coinvolgenti rintocchi elettronici a cui subentravano - dopo 2:30 minuti di elevazione spirituale - la soave voce di Broadrick e un riffing pesante ma evocativo che cominciava lentamente a trascinare verso la vera essenza del lavoro: di qui in poi il crollo e lo smarrimento atmosferico che non ti aspetti, la stanchezza compositiva che nota dopo nota, frammento dopo frammento, diviene sempre più ingombrante facendo perdere al disco brillantezza melodica (l'intero riff centrale è uno dei più noiosi mai composti dall'ex Godflesh) e costringendo l'ascoltatore ad un'esperienza interminabile, letteralmente spossante, salvata in extremis da uno splendido finale che ne risolleva miracolosamente il vigore emotivo e la potenza espressiva, grazie ad un azzeccato intrecciarsi di sottofondi dronici e sognanti scorribande chitarristiche che si spengono lentamente assieme agli ultimi respiri di Infinity.
Non fosse stato per quei tre emblematici momenti (l'apertura elettronica, la dissolvenza ambientale nella fase centrale, l'appena citata chiusura atmosferica), Infinity sarebbe stato un disco da bocciare senza mezzi termini: pesantezza e ripetitività estrema negli arrangiamenti, povertà nelle costruzioni melodiche e poca fantasia sono elementi che in un prodotto marchiato Jesu non ci si aspetta mai e che in Infinity trovano fin troppa strada libera. Ma, com'è ormai noto, Broadrick ne sà una più del diavolo e anche quando la sua arte sonora rischia evidentemente il tracollo, l'ormai quarantenne musicista britannico riesce sempre a tirare fuori dal cappello la solita, inimitabile magia, anche se in questo caso lo fa solo a timidi sprazzi.