- Patrick Connor Klopf - chitarra, voce
- Martin Messner - batteria
- Herwig Zamernik - basso, voce
1. Plus One
2. R.U.S.M.T.S.I.M.
3. Supervision
4. Nine9Nine
5. Grit Yout Teeth
6. Keep Falling Down
7. Dual Peepholes
8. If This Is It, It Isn't It, Is It
9. Idiosyncrated
10. The Love I Hate
11. Pain of Existance
12. Mindshaver
13. I.M.S.M.T.S.U.R.
Ahead
Ritorno sulle scene che ha richiesto molto tempo quello dei Disharmonic Orchestra, una delle formazioni del continente europeo più a "lungo termine" in campo estremo degli anni '90.
Partendo, nell'inizio del decennio con dischi come Expositionsprophylaxe, da una grezza miscela di hardcore punk, grindcore, death metal, thrash e crust, capace di mostrare rozzezza e marciume ma anche violenza e brutalità, gli austriaci pur rimanendo saldamente limitati all'ambiente underground si sono evoluti cercando una forma relativamente più rifinita e tecnica, oltre che tinta di piccole influenze varie (voci pulite, melodic death, parti più tenui e leggere, persino con le dovute proporzioni del caso funk in qualche parentesi) fino a sfociare in una musica più tecnica e progressiva.
Tuttavia la loro carriera si interruppe, temporaneamente, all'improvviso già al terzo album, Pleasuredome, nel 1993. Ci sono voluti quasi dieci anni per aspettare un loro ritorno: Ahead, uscito nel 2002 e rimasterizzato nell'ottobre del 2009, sembra cercare di recuperare con un balzo il tempo passato e sperimentare realmente quel che due lustri prima fu interrotto sul nascere, dirigendosi verso lidi sempre più alternativi, macchiati di meccanicità industriale, stilemi che mantengono invece le loro radici nel metal estremo europeo e con un'attitudine propensa alla sperimentazione ma sempre libera e sciolta, in certi punti sfiorando quasi la parodia delle tendenze avanguardistiche - come nell'ultima traccia -, anche se il gruppo stesso arriva esageratamente a definirsi avant metal.
Le canzoni che colpongono l'album sono caotiche e rumorose, occasionalmente spezzate da distensioni relativamente atmosferiche o impennate più feroci, ma sempre mantenendo di fondo un impianto pesante, quasi dissonante, seppur aperto a concessioni melodiche.
Plus One è l'introduzione strumentale all'album: un crescendo in ostinato ritmico dove effetti elettronici e il resto della strumentazione si aggiungono di seguito in una marcia implacabile. Le linee di basso penetranti nella loro semplicità riempiono l'intero sfondo della canzone, mentre la batteria è meccanica e precisa. Il ripetuto riff acido si intensifica man mano che le chitarre elettriche si sovrappongono, e il risultato è una "orchestrazione" industriale martellante e ossessiva.
R.U.S.M.T.S.I.M. è un brevissimo inserto a metà fra un melodeath alla At The Gates di inizio carriera (in una versione leggermente velocizzata) ed un grind più melodico vicino a certe evoluzioni dei Napalm Death.
Supervision è la prima canzone: un metal squadrato e dinamico, atmosfere da caos urbano vengono sovrastate dai riff catchy di chitarra mentre la parte centrale del brano si orienta verso un ripetitivo industrial metal secco e cupo. Condiscono leggere spruzzate groovy e piccoli inserti rumoristici che enfatizzano il lato caotico e dissonante del gruppo.
Interessante Nine9Nine, che offre un accattivante intreccio fra arpeggi semi-acustici d'accompagnamento, riempimenti atmosferici e industrial metal tinto del thrash caustico e quasi ipnotico degli Exodus. Droni rumorosi anche elettronici di sottofondo rendono il brano pesante e corrosivo.
Dopo un'intro alla Red Hot Chili Peppers, Grit Your Teeth ricorda in parte i Tool, in parte gli In Flames ed in parte persino qualcosina del punk melodico, catturando con chords orecchiabili ma sempre distorti che sovrastano una sezione ritmica relativamente semplice che scandisce il brano con decisione.
Keep Falling Down rimescola thrash, melodic death, armonizzazioni quasi heavy e riff industrialoidi, ma è meno fresca degli altri pezzi anche se mantiene una certa dose di coinvolgimento.
L'introduzione di chitarra clean di Dual Peepholes ricorda certi Kyuss nei loro momenti acustici, ma subito il pezzo si trasforma in un industrial/melodic death metal caratterizzato soprattutto dalla batteria filtrata e dai campionamenti elettronici. E' una strumentale incalzante, anche se non troppo orecchiabile ed un po' monotona.
If This Is It, It Isn´t It, Is It è una breve parentesi grindcore rumorosa, frenetica, bruciante, martellante.
Idiosyncrated è uno schizzato pugno nei denti nel quale un semplice, secco riff distorto accompagna la batteria da terremoto e il growl di Patrick Klopf; ma dopo poco tempo e poi di nuovo in conclusione di brano la violenza viene completamente spezzata da distensioni più melodiche, di soli placidi chords di pianoforte e voce entrambi in lo-fi.
The Love I Hate, su riff che paiono più vicini ad una tradizione di metal melodico scandinava/tedesca ed una struttura ritmica meccanica, inserisce chorus orecchiabili con suadente canto clean, più rassomiglianti a certe variazioni del metal alternativo americano, linee di basso elastiche e piccoli effetti elettronici giocosi.
Pain of Existence è invece un chiassoso speed-thrash filtrato nell'ottica dell'album, ad eccezione dell'attacco iniziale che è praticamente black metal.
Giri funk, elettronica minimale di riempimento, ritornelli vocali quasi emo e refrain a metà fra la melodia svedese e l'energia americana caratterizzano Mindshaver. Un intermezzo di archi mesti ed un po' smielati si inserisce ad un certo punto, è una variazione di toni interessante ma subito ritorna il motivo principale del brano.
Chiude quest'album folle I.M.S.M.T.S.U.R., che non è altri che il secondo brano con in più una bizzarra ghost track che parte dopo cinque minuti: un brano lo-fi di canzone d'autore d'altra epoca in tedesco, divertentemente contrastante con la rabbia dell'esplosione iniziale. C'è pure lo yodel: a questo punto il divertissement è totale.
Viene da chiedersi se sarebbe stato così un loro album uscito subito dopo Pleasuredome, o se ci sarebbero voluti ugualmente dieci anni per giungere fino a queste coordinate musicali (a parere di chi scrive sarebbe stato più probabile come secondo album dopo di esso, con quindi almeno un lavoro di transizione in mezzo).
In ogni caso, nonostante l'attitudine aperta, personale e dotata di un un pizzico di humour, la sensazione è che Ahead sia giunto troppo tardi, offrendo poche novità in senso assoluto ed un songwriting che tende ad essere discontinuo, alternando pezzi ad ogni modo buoni e interessanti ad altri più spenti e monotoni, quasi dei fillers. L'intero disco naviga fra meccanicità, variegatezza e melodia senza molti connettori comuni, apparendo complessivamente disomogeneo e in cerca di un'identità che va e viene fra le diverse sonorità che si intrecciano senza troppa organicità in ciascuno dei tredici brani.
Certo è che diversi spunti interessanti ci sono, se solo fossero stati sviluppati più approfonditamente e studiatamente non ci si chiederebbe se nove anni di attesa non siano stati forse un po' troppi.