:
Sean Smith – vocals
Gavin Butler – vocals
Matthew Davis – guitar
James Davies – guitar
Rhys Lewis – bass
:
01.ShutTheFuckUppercut
02.Save Our Selves (The Warning)
03.Top Of The World
04.The Fire
05.Children Of The Night
06.Said And Done
07.Silent (When We Speak)
08.I Love Myself And I Wanna Live
09.This Is Why We Can't Have Nice Things (feat. Josh Franceschi of You Me At Six)
10.We're Going To Hell... So Bring The Sunblock
The Best In Town
Quando si tratta di gruppi britannici è sempre opportuno ”fare la tara”: vuoi per la proficua capacità di pompaggio mediatico cui sono avvezzi i tabloid d’oltremanica, vuoi per la risonanza pubblicitaria di cui gode qualunque formazione proveniente dalla Terra d’Albione, mai fidarsi ciecamente di quanto si sente dire in giro riguardo le cosiddette “next big thing” d’esportazione, perché tanto è il successo (costruito) oggi quanto l’infamia (possibile) domani. Ebbene, i gallesi The Blackout sfuggono in parte a questa drammatica descrizione: attivi ormai dal lontano 2003, capaci di condividere il palco con formazioni del calibro Lostprophets, Funeral For A Friend, Kids in Glass Houses, Fightstar, Avenged Sevenfold, The Used, Dredg e Thrice, questi cinque ragazzi originari Merthyr Tydfil hanno saputo nel tempo crearsi un proprio stile e soprattutto accattivarsi il favore della suddetta critica (candidati a Best British Newcomer per i Kerrang! Awards nel 2006, ma battuti, guarda caso, dai Bring Me The Horizon) e soprattutto del pubblico, sin dalle origini estremamente vicino a questi giovani e promettenti musicisti. Che i The Blackout (nome estratto da una semplice t-shirt che recava scritto “I survived the blackout”, riferendosi al celebre episodio di New York nel 1977) fossero baciati dalla buona sorte, forse al di là dei propri meriti artistici, si può notare dall’escalation di partecipazioni a tour ed eventi musicali di assoluto rilievo internazionale: dopo la release del fortunato We Are The Dynamite sotto Fierce Panda Records (2007), Sean Smith & Co. sono saliti prima sul palco del Taste Of Chaos Tour insieme ad Aiden, Rise Against, Gallows ed i già citati The Used, quindi, dopo una breve parentesi nordamericana in compagnia dei Bless The Fall, hanno preso nuovamente parte al Give It A Name Festival a fianco di Silverstein, Billy Talent e Glassjaw, prima di affrontare 4 date nella terra del Sol Levante con gli Alesana e concludere il loro percorso live ripresentandosi al Give It A Name Festival del 2008 assieme a Paramore, 30 Seconds To Mars e Alkaline Trio.
Raggiunta la fama, ottenuto il successo, coronato da un prestigioso contratto presso la famosa Epitaph Records del Bad Religion-er Brett Gurewitz, i The Blackout erano attesi al varco del nuovo album con rinnovato interesse e altrettanto sospetto, sentimenti contrastanti che in esso hanno trovato completa manifestazione e perfetta sintesi: The Best In Town è, infatti, un lavoro altalenante, che fonde emo, post-hardcore e pop-punk con brillante facilità ma anche scarsa inventiva, risultando talvolta gradevole, talvolta eccessivamente prevedibile e piatto, pregi e difetti compenetrandosi con piena evidenza e lasciando interdetti anche dopo numerosi ascolti. Per dirimere questo aggrovigliarsi di impressioni in perfetta opposizione basterebbe limitarsi all’ascolto delle prime 5 tracce: il post-hardcore metallico e trascinante di Shut The Fuck Uppercut, l’emo rock catchy e lineare di Save Our Selves e soprattutto Top Of The World, il pop-punk (fortemente) contaminato e aggressivo di The Fire e Children of The Night costituiscono un pokerissimo di tutto rispetto, diventente, frizzante e con alcuni risvolti tecnicamente ben riusciti. La stessa cosa non può certamente dirsi della seconda parte del lavoro: nonostante l’efficace e poderosa Said&Done prosegua sulla scia pop-punk dei precedenti episodi, la ballad tendenzialmente molle e melensa che risponde al nome di Silent avvia una parabola pericolosamente discendente che precipita nel prevedibile e noioso pop-rock di I Love Myself And I Wanna Live e This Is Why We Can’t Have Nice Things, senza risollevarsi affatto nella conclusiva e smodata We’re Going To Hell, che vorrebbe essere incalzante e aggressiva ma che finisce per diventare per lo più soporifera e chiassosa.
E’ chiaro allora che The Best In Town non fa altro che potenziare pregi e difetti di una band certamente giovane ma con alle spalle un background live, critico e discografico di tutto rispetto: The Best In Town esalta la perfetta interazione tra il 2 vocalist, in grado alternarsi con carisma e dinamismo in coinvolgenti botta e risposta fra clean e scream, e ribadisce lo straordinario senso melodico di una band che fa dell’immediatezza più assoluta il proprio strumento di conquista di un pubblico sempre crescente e appassionato. Proprio su questi punti cardine occorre appoggiarsi per poter formulare un giudizio completo e corretto su questa promettente formazione gallese: se da un lato, infatti, la proposta dei The Blackout non offre nulla di assolutamente nuovo, originale o almeno diverso da tanti altri gruppi clone che ormai affollano l’emo(core), dall’altro sembra proprio che non ne abbiano alcun bisogno né ne sentano la necessità, visto che ogni loro pezzo manifesta una scorrevolezza ed una facilità d’ascolto tutt’altro che banali, peraltro accompagnate da un sound moderno, squillante, decisamente ben confezionato. Che si tratti di un prodotto essenzialmente artificiale potrebbe essere una considerazione piuttosto fondata, benché figlia della diffidenza che accompagna tutti i gruppi giovanili catapultati alla ribalta del grande pubblico dopo ben poche prove discografiche; tuttavia, quel che più conta è che The Best in Town è un disco luminoso, estivo se vogliamo, dotato di semplicità e piacevolezza in egual misura, in grado di farsi ascoltare sia dagli appassionati del genere (che probabilmente rimarranno delusi dall’apparente scontatezza di certi momenti) sia dai suoi neofiti (che certamente rimarranno sorpresi dalla sua freschezza e dalla sua vitalità), la cui unica pecca è quella di lasciare in bocca quell’amaro retrogusto che si prova di fronte alla consapevolezza che, se avessero voluto, avrebbero potuto fare molto di più. 10 pezzi, insomma, di cui 6 mediamente buoni e 4 tendenzialmente scarsi: stando ai numeri…