Luke Temple - voce, tutti gli strumenti
1. Only Pieces
2. Fangela
3. Ahab
4. Tunnelvision
5. Ghost List
6. I Just Want to See You Underwater
7. Babyohbabyijustcantstanditanymore
8. Nat's Alien
9. Everything's Big
Here We Go Magic
Here We Go Magic è il moniker dietro cui si cela il brooklynese Luke Temple, già autore di Hold a Match for a Gasoline World (2005) e Snowbeast (2007), due album indie-rock influenzati dal pop-rock autoriale ed eclettico di Andrew Bird e in minor misura dal freak-folk newyorkese.
Il nuovo progetto di Temple sembra essere volto ad espandere quella sua vena cantautoriale verso territori più spaziosi: il primo omonimo album enfatizza l'anima psych-folk, e allo stesso tempo tenta di incorporarla in strutture indietroniche che ricordano da una parte gli eccellenti esperimenti di alcuni suoi connazionali (Animal Collective in primis, ma in minor misura anche TV on the Radio e LCD Soundsystem) e dall'altra l'indie-pop e il twee-pop più frivoli e spensierati.
Le varie dimensioni musicali riescono a convergere verso formule inaspettatamente catchy e raffinate in almeno tre episodi, ovvero l'opener Only Pieces e le poco seguenti Fangela e Tunnelvision: si tratta di composizioni ipnotiche, che giocano sia con gli "hook" vocali (particolarmente memorabili nelle prime due) sia con le mesmerizzanti stratificazioni (l'apice in questo senso è invece nella terza) di chitarre folk, battiti elettronici e synth imparentati alla lontana con la psichedelia cosmica dei tedeschi Ash Ra Tempel.
Appena sottostanti vibrano invece Ahab, che porta all'estremo le influenze psichedeliche cosmiche facendole ondeggiare tramite languide modulazioni tastieristiche, e I Just Want to See You Underwater, ulteriore texture ipnotica e psichedelica accesa dagli stream chitarristici e dagli andirivieni di voci filtrate.
Il problema del disco è che le buone idee si esauriscono nel giro di queste cinque tracce, non giustificando affatto l'uscita di un full-length; purtroppo Temple ha ceduto ad una delle tendenze più deleterie dei nostri tempi, ovvero quella di concludere in fretta il lavoro completandolo con alcuni insapori filler, che qui rispondono al nome di Ghost List, Babyohbabyijustcantstanditanymore, Nat's Alien (tre pezzi drone-ambient che non solo risultano prolissi e privi di idee, ma spezzano anche malamente il flusso e l'umore andatisi a creare) e Everything's Big (una ballata blues-pop un po' troppo svenevole che pare uscita direttamente dai 1960s, senza alcun aggiornamento o evoluzione sonora).
Temple ha quindi bruciato l'occasione di dare alla luce un memorabile album nel filone psych-pop-indietronico, preferendo affrettarsi a pubblicare un full-length nonostante avesse idee sufficienti solamente per un ottimo EP.
Vedremo se alla prossima occasione saprà rimediare all'errore.
Nel frattempo gli Here We Go Magic sono impegnati in tour, grazie all'apporto di Baptiste Ibar (basso) e Peter Hale (batteria), affiancati a Temple stesso in sede live.