- Damnagoras - voce, chitarra
- Aydan - chitarra
- Gorlan - basso
- Elyghen - violino, tastiere
- Zender - batteria
1. The Caravan of Weird Figures
2. Another Awful Hobs Tale
3. From Blood to Stone
4. Ask a Silly Question
5. She Lives at Dawn
6. The Winter Wake (versione acustica)
7. Heaven is a Place on Earth (Belinda Carlisle cover)
8. My Own Spider's Web
9. Not My Final Song
10. The Blackest of My Hearts
11. The Wanderer (versione acustica) (digipack bonus track)
12. Miss Conception
13. My Little Moon
Two Tragedy Poets
Gli Elvenking sono l’ennesima dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’Italia, in fatto di musica “metal&affini”, non teme rivali: ascesi alla ribalta internazionale poco più di 2 anni or sono con l’eccellente The winter wake, a solo un anno di distanza dal controverso (ma pur sempre ottimo) The Scythe, infatti, il quintetto friulano ritorna in scena con un progetto a dir poco rischioso, quel Two Tragedy Poets (…And A Caravan Of Weird Figures) interamente acustico. Si tratta senza dubbio di un lavoro tecnicamente impeccabile, in grado di tratteggiare con sapienti intrecci di chitarre e violini orizzonti boreali ed atmosfere boschive, la cui maestria strumentale rifulge al ogni cambio di tempo, ad ogni diverso accordo, ad ogni inatteso arpeggio. Tuttavia, il rischio di non accorgersi di questo gioiello di incontenibile purezza è proprio dietro l’angolo: , forse proprio a causa della sua più evidente peculiarità ovvero la rinuncia alla corrente elettrica, compromette a volte una certa rapidità di assimilazione, rendendo l’ascolto talvolta difficoltoso a causa di un’impressione, del tutto estemporanea per chi supera di slancio i primi ascolti, di eccessivo manierismo. Superato questo primo impatto forse non troppo esaltante, Two Tragedy Poets (…and a caravan of weird figures) cattura l’ascoltatore immergendolo in un modo atavico e genuino, caratterizzato da riflessi crepuscolari, danze popolari, crepitanti falò e sospiranti invocazioni, concretizzando alla perfezione l’immaginario collettivo degli antichi celti, tanto desueto quanto, in questa precisa occasione, vivo e palpitante.
La conseguenza di quanto appena narrato sembrerebbe un giudizio assolutamente entusiasta e così effettivamente sarebbe qualora non comparissero, nella tracklist, alcuni elementi non propri negativi ma, con massima pignoleria, certamente deludenti. Innanzitutto, per quale ragione inserire all’interno di un album di puro e beato folk metal, per di più meravigliosamente acustico, l’improbabile cover di uno dei tanti tormentoni anni ’80 qual è Heaven is a place on earth di Belinda Carlisle (la canzone venne successivamente rivitalizzata dalla celeberrima Cindy Lauper, la bionda singer di Time after time)? Certo non si può mettere in dubbio la qualità intrinseca dell’arrangiamento del brano e della sua esecuzione, ma al contempo non si può non rimanere basiti (e, per certi versi, inviperiti) a leggere lì, in traccia sette, al centro di quella sensazionale collana di perle che è Two tragedy (…and a caravan of weird figures), un pezzo che nulla ha a che fare col mondo metal o folk o acustico.
In secondo e ultimo luogo, cosa pensare delle cover acustiche di The winter wake e The wanderer, 2 dei brani in assoluto più rappresentativi degli Elvenking? Anche in questa occasione è d’obbligo prescindere completamente da un giudizio puramente qualitativo (il livello dei brani è sempre costantemente eccellente, soprattutto nel caso di The winter wake) ed esprimere una considerazione più vicina al concetto di coerenza artistica: non sarebbe stato più opportuno, infatti, inserire queste due cover nei dischi precedenti, magari come bonus track, anziché interporle all’interno di un progetto del tutto originale, inedito e per di più estremamente caratteristico? Parrà ai più un dettaglio assolutamente marginale, ma se si ascolta l’album tutto d’un fiato (come sempre andrebbe fatto) e si conosce un minimo la discografia del combo friulano, le 3 tracce precedentemente citate, allocate in posto 6 7 e 11, spezzettano in maniera del tutto controproducente il placido scorrere dei brani, come risvegliando l’ascoltatore dall’onirico viaggio appena intrapreso.
Ad ogni modo, a livello squisitamente tecnico Two tragedy poets (…and a caravan of weird figures) si presenta pressoché impeccabile: i 5 polistrumentisti di Pordenone si scambiano ruoli e posizioni in maniera spesso inedita e sempre efficace, costruendo portentosi intrecci di chitarre (davvero deliziose nel primo singolo estratto, From blood to stone, e in My own spider’s web), pianoforte (la straziante My little moon), violino (superbo in Another Awful Hobs Tale e Ask a silly qeestion, ancora efficace nella già citata From blood to stone, in My own spider’s web e The wanderer) e batteria (decisamente in forma il buon Zender, in evidenza ancora in From blood to stone e Not my final song), alternando con inesauribile linfa vitale brani veloci e passaggi midtempo, talvolta ricordandoci le loro radici più solidamente folkloriche con qualche azzeccato rintocco di tamburello (essenzialmente in My own spider’s web). Difficile mettere in rilievo un pezzo più di un altro, giacché ci troviamo di fronte ad un album che, al di là di qualche brano di immediatezza maggiormente evidente (senza dubbio il singolo From blood to stone, davvero una scelta azzeccata, nonché la gratificante Ask a silly question, la più ricercata Not my final song o la brillantissima Miss Conception), si fa soprattutto apprezzare per il suo percorso ed il suo complesso, ricco di momenti veramente appassionanti e fraseggi oltremodo piacevoli.
In ultimo, è bene sottolineare la prestazione, al microfono, del discusso Damnagoras: pur dotato di una voce né troppo leggiadra né troppo aggressiva né troppo potente, riesce a fare di un timbro tutt’altro che eclatante un ottimo strumento interpretativo, valorizzando al massimo l’emotività della sua performance canora (mediamente valida) nonché, doverosamente, la sua precisione. Menzione speciale, a margine, merita l’encomiabile artwork: esteticamente eccezionale, simbolicamente impressionante (non a caso avevamo metaforicamente citato le radici celtiche e le ambientazioni boschive), si tratta di un aspetto senza dubbio rimarchevole e determinante qualora lo si ponga a confronto coi tanti obbrobri cromatico-figurativi che oggigiorno affollano gli scaffali dei negozi musicali, il cui scarsissimo appeal visivo troppo spesso rischia di inficiare il successo di prodotti e musicisti che certo lo meriterebbero.
In conclusione, gli Elvenking si confermano, con ogni probabilità, la migliore realtà folk metal nostrana, esprimendo nuovamente, con questo Two tragedy poets ad a caravan of weird figures, un’indiscutibile competitività anche a livello internazionale: superando brillantemente la difficoltà di presentare un lavoro completamente privo della debordante potenza dell’energia elettrica, infatti, il quintetto friulano si dimostra maestro di eleganza e sentimento artistico, sopperendo alla precedente assenza con la più totale valorizzazione di strumenti più fragili dal punto di vista sonoro ma allo stesso tempo più ricchi, secondo molte sfumature, di pathos emotivo, quali il violino (da sempre “nelle loro corde”), il pianoforte, persino il tamburello. Complimenti.