- Will Sergeant - chitarra
- Ian McCulloch - voce, chitarra
- Les Pattinson - basso
- Pete de Freitas - batteria
1. Show Of Strength (04:50)
2. With A Hip (03:16)
3. Over The Wall (05:59)
4. It Was A Pleasure (03:12)
5. A Promise (04:08)
6. Heaven Up Here (03:45)
7. The Disease (02:28)
8. All My Colours (04:06)
9. No Dark Things (04:27)
10. Turquoise Days (03:51)
11. All I Want (04:09)
Heaven Up Here
Dopo aver completato il primo capitolo discografico Crocodiles, equilibrando le reminescenze psichedeliche con il sound del nascente Post Punk inglese, gli Echo & the Bunnymen erano ormai pronti per scalare le classifiche del mercato musicale internazionale. La critica della fine degli anni Settanta accolse con entusiasmo una realtà che si impose riscoprendo i tratti tipici del timbro dei defunti Doors, proiettandoli nella nuova sensibilità Wave: Heaven Up Here rappresentò quindi il punto di incontro tra due logiche compositive diverse, che vennero fuse con efficacia per dare origine a canzoni dirette ed orecchiabili.
Lo sperimentalismo nero di Joy Division e Cure nell’ambito del Post Punk influenzò in qualche modo la genesi di Heaven Up Here, come dimostrano le linee di basso che scorrono dense in tutta l’opera, ma la tensione verso meandri più “americani” rimase comunque la componente fondamentale dei primi Echo & the Bunnymen.
In una sorta di primordiale College Rock si collocano celebri brani come Show of Strength, profondamente intriso da una vena malsana e tenebrosa, oppure It Was a Pleasure, dotato di una carica esplosiva dal sapore alternativo ed in equilibrio tra tensioni retrò e nuove ricerche sonore.
Il leader Ian McCulloch esibisce un tono vocale corposo e decisamente Rock-oriented nelle sezioni più impetuose, ma in grado di chiudersi su se stesso nei monologhi più silenziosi.
Altrettanto valido è l’apporto del batterista Pete De Freitas (subentrato alla meccanica drum-machine fin dal debutto Crocodiles), che arricchisce ogni episodio di Heaven Up Here con tamburi soffocanti (basti pensare alla spettrale ma melodica All My Colours) o con andamenti squisitamente Post Punk.
Ciò che gli Echo & the Bunnymen non perdono di vista per tutta la lunghezza del full-length è l’eleganza e la raffinatezza che permeano ogni passaggio e che permettono di costruire vere e proprie hit ottantiane (il singolo A Promise), ricche anche del contributo malato dei Velvet Underground di Lou Reed.
Le molteplici influenze di McCulloch e compagni consentirono l’ottima riuscita di un album colmo di sfaccettature ma capace di esprimersi con un sound omogeneo e calibrato.
Sebbene il sound degli Echo & the Bunnymen risentisse di quest’alone d'oltreoceano, il riscontro del pubblico britannico fu parecchio caloroso e decretò l’entrata di Heaven Up Here nella Top Ten della chart nazionale.
Lavorando parallelamente ai sopra citati acts Post Punk, gli Echo & the Bunnymen contribuirono alla temporanea ascesa di un genere qualitativamente parecchio valido, in cui ogni band costituiva una realtà isolata ed estranea alle altre. Tale individualismo musicale si può percepire in opere come Heaven Up Here o nei capitoli discografici successivi, che segnarono l’affermazione del progetto di Ian McCulloch nella storia musicale Rock dell’ultimo trentennio.
Pur non costituendo il disco più significativo del four-piece di Liverpool, Heaven Up Here è un piccolo gioiello di una formazione spesso troppo trascurata nel florido panorama Wave d’inizio anni Ottanta, ma in possesso di un timbro personale e lontano dalle proposte contemporanee.