- Geneviève – Voce, strumenti, testi
- S. de La Moth – Voce, strumenti
1. One Too Many
2. This Place of Power
3. The Die is Cast
4. Surface Vessel
5. Dismantling
6. Utterly Destitute
7. The Bosom ot The Earth
The Die is Cast
Nadja + Khanate + Dead Can Dance + Nebelhexë può essere una somma capace di dare frutti?
I canadesi Menace Ruine sono convinti di sì, e provano a dimostrarlo con questo “The Die is Cast”, loro terzo (!) lavoro pubblicato nel corso del 2008 dopo il demo su cassetta “In Vulva Infernum” (Gennaio, etichetta Tour de Garde) e il buonissimo debutto “Cult of Ruins” (Marzo, Alien8 Records), quest'ultimo un pregevole disco di fumoso Psychedelic Black Metal, aggressivo e lancinante ma dissonante ed alterato, piagato solamente da alcune lungaggini di troppo ma decisamente appetibile per tutti gli appassionati di Black fuori dagli schemi.
Ma torniamo a “The Die is Cast”, novella creazione di questo duo di Montrèal: un album che si allontana dalla formula di “Cult of Ruins” e dal suo rumoroso Black Metal, andando a parare in territori assolutamente personali e sorprendenti, che l'equazione di inizio recensione ha tentato di sintetizzare velocemente: surreali droni vibranti e strazianti distorsioni rugginose formano il substrato (Nadja nei momenti più statici, Khanate in quelli più dissonanti) al contempo affilatissimo e sognante al quale vengono saldati ritmi sacrali di percussioni, tamburelli e sonagli, su cui successivamente si staglia una voce femminile ancestrale, gotica e neo-medievale (Lisa Gerrard e i suoi Dead Can Dance sono i numi tutelari in questo caso, oppure, divagando in territori neofolk o industriali, pensate ai The Moon Lay Hidden Beneath a Cloud... ma anche la strega norvegese Nebelhexë aveva tentato delle contaminazioni tra Metal ossessivo e ambientazioni da Medioevo neo-pagano ), cantando inni perduti in un'atmosfera arcana ed occulta a cavallo tra i secoli, riecheggiando lontanamente la marzialità del Folk apocalittico ma trasfigurandola attraverso un muro Noise-Drone reso ulteriormente ipnotico dal reiterato utilizzo di loop elettronici (“One Too Many”).
L'atmosfera è mantenuta coerente, con ballate fatte di melodie fragilissime poiché vecchie di centinaia d'anni ma monumentali a causa dell'abnorme riverbero assicurato dalle chitarre e dai tamburi (“This Place of Power”); o con momenti di pura, dolorosa deformazione Noise come preludio per solenni marce funebri (l'introduzione e successiva evoluzione di “Surface Vessel”) oppure ancora con divagazioni orientaleggianti per chitarre martoriate ("Utterly Destitute").
I due del Quebec intelligentemente gestiscono con durate limitate (tra i due e i sette minuti) i propri brani, evitando con saggezza di appesantire l'ascolto di un suono tanto particolare ed unico ma anche ben definito e mai abbandonato all'interno del disco. Fa eccezione il monolite conclusivo “The Bosom of the Earth”, oltre un quarto d'ora di apocalittica catarsi a base di Drone, capace d'inglobare una batteria a velocità 'terremoto' e la solita declamatoria voce di Geneviève sotto ai propri cavernosi rimbombi senza scomporsi, per poi spegnersi lentamente decadendo tra distorsioni e vibrazioni sotterranee.
Un disco dalla bellezza oscura e superba immerso in un'atmosfera particolarissima, con drammatici medievalismi da cattedrale gotica meravigliosamente deturpati da miscredenti, sfibranti panorami di moderno Drone-Metal, per un'esperienza d'ascolto inedita ed avvincente.
Eccelso.