- Nikki King - Voce, Pianoforte, Vibrafono
- Billy Bennett - Percussioni, Chitarra, Basso, Pianoforte, Synth
- Champ Bennett - Chitarra, Basso, Mellotron, Celesta
- Jeremiah Killinger - Chitarra, Clarinetto, Pianoforte
- Mia Matsumiya - Violono
- Toby Driver - Clarinetto, Chitarra, Basso,
- Andrew Miller - Violoncello
- Alex Aldi - Synth
- Alan Weatherhead - Chitarra
- Rick Alverson - Voce
- Debra Wassum - Voce
1. The Adolescent
2. Ain Leuh
3. Abutting, Dismantling
4. Company
5. Jeroen Van Aken
6. Rendered Yards
7. Pseudonyms
8. First Mile, Last Mile
9. Du Meine Leise
Rest
La musica dei Gregor Samsa (tranquilli, non c'è nessun insetto Kafkiano di mezzo) è un pò come un sottile filo di velluto che trapassa l'aria senza che nessuno se ne accorga, è un pò come il suono che ci si immagina quando si è immersi nei sogni sapendo che però tale suono non esiste.
E' un pò come una poesia che riecheggia da lontano facendosi spazio tra la nebbia, a cui ci si abbandona lentamente, forse per celebrare la propria solitudine, il proprio distacco dal reale; in qualche modo, sembra che tale sia la musica di quella redenzione, triste e soffusa, che ogni essere umano cerca disperatamente all'interno della propria vita.
Così subentrà con il suo canto delicato Rest, secondo full lenght del combo newyorchese che già aveva stupito nel 2006 con 55:12, bel disco di post rock lento, romantico e particolare, caratteristiche che in questo secondo album (prodotto per la The Kora Records) vengono ancora più marcate, andando a ritrarre un sound stracolmo di atmosfere rarefatte e oniriche sotto cui la pseudo orchestra messa su dai coniugi Nikki King e Champ Bennett si muove silenziosamente, rintoccando i propri strumenti come se si trattasse di piume leggerissime.
Attraverso sottofondi ambient che si protraggono costanti tra i dialoghi di archi e i malinconici giri di pianoforte, il sound di Rest sposa e per molti versi ricalca il paesaggismo onirico e soffuso dei Sigur Ros e del dream pop più etereo, non disdegnando fraseggi strumentali sullo stile dei Clogs di Lantern e prendendo a volte le sembianze di una sorta Mogwai celestiali privi delle inossidabili cavalcate di distorsioni. Le melodie di cui è permeato Rest risentono infatti di molto post rock moderno, soprattutto della sua frangia meno sperimentale e ricercata: come nei perpetui rintocchi del disco fanno infatti visita gli Album Leaf di In A Safe Place (la pacatezza e la fumosità atmosferica di Ain Leuh), altre volte le interminabili eco strumentali richiamano i Labradford - come anche i Pan American - meno nichilisti, elaborandone una rivisitazione decisamente più ariosa, messa fortemente in mostra nella terza Abutting, Dismantling.
Molte influenze, quindi, che rendono il disco estremamente particolare anche se a volte fin troppo prevedibile e limitato (Rendered Yards) o, più semplicemente, poco avvolgente come nel caso di Company, fredda nel suo prolungato incedere tastieristico. Di livello ottimo sono invece Jeroen Van Aken e Pseudonyms che, sebbene non brillino per originalità, commuovono in maniera dolce, pacata e intensa, filtrando ogni suono, ogni nota, ogni effetto con una malinconia desolante che ci porta in solitudine verso orizzonti sconosciuti e sconfinati; un pò nella maniera con cui The Adolescent, probabilmente la canzone più 'scopiazzata' dell'insieme, apre il disco attraverso un soffuso accostarsi di voci, vibrafoni, fiati e morbidi soundscapes ambientali di sottofondo.
Un'intera orchestra in cui convivono una miriade di strumenti (dal violino, al clarinetto, dal vibrafono alla celesta) i cui connotati classici vengono modificati e trasposti in chiave moderna, all'interno di un disco che ha saputo prendere il rock moderno e adattarlo ad un classicismo sognante ed emotivo ma altrettanto amaro quando la sua atmosfera prende una piega decisamente più cupa.
In questo elegante - seppur fin troppo derivativo - post rock suonato come se ci si trovasse ai tempi del tardo-romanticismo musicale, i Gregor Samsa hanno concentrato i loro stimoli compositivi, avvalendosi anche di particolari personaggi (Rick Alverson degli Spokane, tanto per dirne uno) estratti dalla scena alternativa-sperimentale del 2000.
Rest rimane un bel disco, piacevole ed emozionante ogni volta che lo si ascolta, ma che avrebbe avuto bisogno di un linguaggio compositivo più vario, ricercato e ovviamente meno influenzato da quella sfilza di artisti e tendenze, più volte citati nella recensione stessa, che se da una parte rendono il disco un prodotto d'autore ed elegante, dall'altra lo limitano vistosamente. Ed è questo un grande peccato, perchè potevamo ritrovarci davanti un potenziale disco dell'anno...