- Beth Gibbons - voce
- Adrian Utley - chitarra, basso, tastiera
- Geoff Barrow - programmazione, tastiere, batteria, chitarra
1. Silence
2. Hunter
3. Nylon Smile
4. The Rip
5. Plastic
6. We Carry on
7. Deep Water
8. Machine Gun
9. Small
10. Magic Doors
11. Threads
Third
Breve riassunto di quel che furono i Portishead (chi conoscesse già salti pure il paragrafo): semplicemente "solo" uno dei gruppi più innovativi, significativi, comunicativi e importanti degli anni '90. Con loro un'anima urbana, psichedelica e malinconica si fondeva con ritmiche di matrice hip hop filtrate attraverso un'ottica al tempo stesso più rock e più elettronica, atmosfere desolate sintomatiche delle metropoli occidentali, samples da spy-movie più spunti jazzati che conferivano tinte noir alla loro musica, downtempo catturanti ed una veste relativamente pop (comunque d'ambiente alternativo) retaggio della loro appartenenza allo scenario musicale britannico.
Costituiti dall'eccezionale ed espressivissima cantante Beth Gibbons e dal supporto compositivo inscindibile di Geoff Barrow e Adrian Utley, i Portishead espressero le angoscie e le sensazioni più decadenti delle grandi città inglesi e non sul finire del ventesimo secolo, diventando al contempo la punta di diamante del cosiddetto movimento "trip-hop" della città di Bristol ed una delle realtà più personali ed originali della musica contemporanea grazie ai loro unici (fino ad ora) due dischi, il notevole esordio Dummy ed il cupo ma mesmerizzante omonimo secondo album. Quest'ultimo uscì dopo due anni dal debutto, ma quasi dieci anni prima del loro ritorno.
Si sono fatti attendere per un decennio - nel frattempo il progetto solista di Beth Gibbons con Paul Webb dei Talk Talk - e il risultato va oltre quel che ci si aspettava.
Intitolato semplicemente Third, quasi a simboleggiare l'essenzialità del disco, questo terzo lavoro degli inglesi evita accuratamente di ricalcare le sonorità che popolarizzarono il gruppo, entrando invece in un nuovo percorso che rinnova lo stile del gruppo e al contempo lo rende molto più "da digerire". Non aspettatevi un lavoro immediato o che richieda poco tempo per essere assimilato.
Molto più oscuro nei suoni (con alcuni riverberi di certa wave ottantiana), viene abbandonato l'elemento hip hop e turntabling, mentre fanno la loro comparsa nuovi spunti, delle venature ora industrial (di quello del periodo post-punk), ora vicine all'indietronica, ora più folk-oriented, nonché richiami retrò alla musica cinematografica di John Carpenter (un'ispirazione dichiarata per l'album) e al doo-wop .
Non si può più parlare di trip hop, la nuova veste dei Portishead è un crocevia di contaminazioni che affonda le sue radici nell'essenzializzazione degli strumenti convenzionali, nel minimalismo elettronico, nel certosino lavoro di editing, nelle atmosfere sempre più oscure e in un'imprevedibilità compositiva totalmente refrattaria ad ogni soluzione scontata o prevedibile. Partendo dalla chitarra minimale, contorniata da spettrali infiltrazioni di tastiera, e orbitando attorno alla drammatica voce della Gibbons, non ci sono piccole perle di melodia e tristezza come Undenied, o ritornelli acidi ma catchy come in Numb: questo disco è molto più funereo, alienante ed ostico dei precedenti, ancora più pessimista e privo di speranze; ma in questi sensi il retrogusto presente è di abbandono, sconforto e desolazione, più che di disperazione. Dummy a confronto è ben più "pop" per arrangiamenti melodici e coesione sonora nella forma-canzone, mentre viene fatto sembrare quasi "sereno" per umore in alcuni frangenti.
Il tutto può apparire superficialmente scarno negli arrangiamenti, ma in realtà è essenzialista. L'album è stato fortemente curato e sentito nella sua creazione, anche per il fatto che il gruppo ha composto Third in assoluta libertà espressiva e di ricerca sonora (Barrow ha dichiarato che non sentivano alcuna pressione o esigenza di sfornare un disco che riscuotesse successo) potendo così ottenere un lavoro personalissimo, vissutissimo e imbevuto fino al limite di sensazioni ed emozioni - ancora più tetre di quelle che la formazione di Bristol ci seppe offrire oltre un decennio fa.
Per questo il lavoro è in realtà intensissimo nella sua rarefazione, ancor più opprimente e afflitto.
Ed è certamente, come già detto, poco accessibile: il primo impatto può essere spiazzante, in alcuni casi quasi deludente, ma una volta entrati in sintonia con il mood del disco si inizia a scoprire l'assoluta spiazzante sostanza espressiva di cui è composto. Va assimilato, necessita di approfondimento e attenzione.
Silence introduce l'ascolto: batteria soffice nella registrazione ma che scandisce incessantemente l'aria con i suoi poliritmi, atmosfere decadenti che accompagnano la dolente voce della Gibbons, chitarre essenzialiste condite da effetti di contorno che rendono il tutto più psichedelico, archi macabri. Angosciante.
La successiva Hunter è oscurità fittissima: la strumentazione lenta ed opprimente, la voce distaccata di Beth, gli effetti elettronici ipnotici che si inseriscono brevemente ogni tanto... sembra di essere persi per un bosco notturno, immersi unicamente nel gelo e nella solitudine, ma non c'è paura, piuttosto smarrimento, desolazione, rassegnazione.
Nylon Smile gioca sulla combinazione del canto malinconico di Beth con il tessuto sonoro da brividi che le fa da sostegno, con un sapore di angoscia che ricorda molto i Radiohead e che spesso e volentieri sembra emergere anche nei tratti più morbidi.
Invece The Rip si orienta verso elementi maggiormente acusti che ricordano certi Goldfrapp, anche per le atmosfere più stemperate rispetto a quanto ascoltato fino ad ora, ma il mood oscuro è puramente da questo disco, da Portishead. Melanconica.
Plastic è il brano che più ricorda il passato del gruppo, assimilabile maggiormente all'omonimo per la maggiore inquietudine che alberga fra le note e l'attacco aggressivo che rende il tutto ancora più cupo ed estraniante.
We Carry on è una marcia compulsiva e paranoica, i ritmi ossessivi non lasciano tregua mentre l'elettronica disturbante riecheggia nell'aria. La voce di Gibbons è spettrale come non mai, le chitarre sono inquietanti e psichedeliche, non c'è calma, non un attimo di tregua, la canzone scorre lasciando senza respiro. Memorabile il climax finale.
Viene ora la breve Deep Water, breve parentesi acustica dal sapore retrò e doo-wop. Un placido recupero dopo la corrosiva precedente traccia, ed un cuscinetto morbido prima dell'alienante Machine Gun. Quest'ultima è interamente incentrata su di una drum-machine che colpisce meccanicamente seguendo uno schema inesorabile, freddo, disumano. Le backing vocals accentuano il senso di malinconia della canzone, che però risulta stranamente trascinante (non per caso è stata scelta come singolo, combinandoci anche la rappresentatività dei nuovi Portishead ancora più oscuri). Verso il finale il battito assume un "riverbero elastico" nel suono che esaspera la freddezza e la meccanicità che aleggiano nel brano, prima di un giro di synth in chiusura che ricorda le colonne sonore di John Carpenter e il Vangelis di Blade Runner. Una spietatezza decadente dalle atmosfere post-industriali: Machine Gun sarà forse il pezzo più ricordato di tutti in questo Third.
Small ritorna su binari più "umanizzati", ma l'arpeggio acustico è cupissimo e gli effetti elettronici riportano nuovamente sensazioni alienanti fino a sfociare in un intermezzo ossessivo e psichedelico, disturbante, agghiacciante.
La radioheadiana Magic Doors è, da un certo punto di vista, la "hit orecchiabile" dell'album, la più melodica di tutte, soprattutto per il ritornello relativamente "dolce", mentre suoni esotici di sottofondo accentuano un'atmosfera densa e fumosa sicuramente efficace nell'affascinare l'ascolto.
Infine, Threads è un altro brano che si riallaccia al disco omonimo, con un andamento più lento e dark, senza rinunciare ad un briciolo di melodia che però viene completamente offuscata dagli effetti in chiusura, inquietantemente oscuri e disumanizzanti.
Tanto a lungo atteso, Third ci mostra un gruppo che pensa semplicemente a comporre la propria personale musica e a comunicare le proprie personali sensazioni, al riparo da fronzoli estetici di contorno e motivetti accattivanti che snaturino l'essenza del disco in favore di un appeal più abbordabile per gli ascoltatori in modo da sfruttare l'hype venutosi a creare per l'attesa spasmodica dietro al ritorno di questo gruppo. Un ritorno eccellente, tetro nella sua crudezza ma vivissimo nella capacità di testimoniare l'ansia e l'inquietudine di questo inizio di millennio. Non v'è esagerazione nel definire i Portishead una delle realtà più significative non solo della musica inglese, ma di sempre.
Adesso dobbiamo aspettare l'altra grande formazione del trip hop, cioè i Massive Attack di Robert Del Naja con il loro Weather Underground (ufficiosamente chiamato così per il momento), per avere la conferma sullo stato di salute di Bristol... a meno che i loro, fino ad ora, cinque anni di attesa non debbano anch'essi prolungarsi.