- Douglas Pearce – Voce, Chitarra, Sampling
1 The Glass Coffin (5:55)
2 Forever Loves Decay (4:04)
3 Jesus, Junk and the Jurisdiction (4:09)
4 Idolatry (3:35)
5 Good Mourning Sun (3:58)
6 The Perfume of Traitors (3:45)
7 Last Europa Kiss (2:09)
8 The Rule of Thirds (4:13)
9 Truly Be (2:45)
10 Their Deception (3:08)
11 My Rhine Atrocity (3:35)
12 Takeyya (3:32)
13 Let Go (4:10)
The Rule of Thirds
E' dal 2001 che mancava una vera e propria pubblicazione inedita dei Death in June, ovvero da quando il controverso “All Pigs Must Die” fece da veicolo per tutta la rabbia e l'amarezza accumulate da Douglas Pearce a causa delle controversie legali e personali dovute al fallimento della World Serpent Distribution: un disco anomalo, quello, per metà sorretto dalla cooperazione con il fisarmonicista tedesco Andreas Ritter (il leader dei Forseti) e per metà inquinato da melmosi e rumorosi collage di Ambient industriale. Nel 2004 fu ancora una collaborazione a dare vita ad “Alarm Agents”, album condiviso con Boyd Rice in cui Douglas si occupò solamente del lato musicale; da allora, un paio di secondarie comparsate e diverse operazioni di ristampa, prima del ritorno vero e proprio con questo “The Rule of Thirds”, appena uscito in tre edizioni (CD, vinile, picture disc).
Un disco che è sintomatico dello straniamento di Douglas, oramai isolatosi dal resto del mondo nella sua tenuta australiana: nessun ospite, nessuna collaborazione, nessuna influenza esterna, nessun aiuto (se si esclude l'intervento alla chitarra del suo tecnico del suono, Dave Lokan, in una traccia): “The Rule of Thirds” è probabilmente il disco più scarno e minimale mai creato sotto il monicker Death in June, uno scheletro fatto di banali e lineari ballate per sola voce e un'asciuttissima chitarra acustica – null'altro, se non l'intervento di alcuni samples (vocali e rumoristici) di origine cinematografica ad interrompere il flusso canoro dimesso e monotono, ma dal timbro pur sempre ammaliante, dell'oramai cinquantaduenne Douglas Pearce.
Anni che sono portati -musicalmente- malino, poichè “The Rule of Thirds” non fa che confermare il (definitivo?) inaridimento della vena creativa di quello che un tempo fu uno dei geniali ideatori del Folk apocalittico: a livello prettamente musicale il disco è poverissimo, con linee chitarristiche ripetitive e noiose, quasi sempre uguali a sé stesse per tutta la durata della canzone, senza variazioni di sorta e assolutamente prive di guizzi armonici che aiutino a arricchire un suono volutamente disadorno; la voce di Douglas rimane quindi solitaria ed isolata, nell'improbo compito di portare avanti in maniera coinvolgente le melodie e le liriche (queste sì motivo d'interesse, poiché era da “All Pigs Must Die” che non vedevamo mr. Death in June alle prese con le sue prose, sempre sfuggenti e dotate di diversi livelli d'interpretazione), ed infatti nella maggior parte dei casi anche la voce mostra deludenti segni di cedimento, risultando piatta e monocorde; non la aiutano né la strutturazione delle canzoni – piuttosto prevedibile ed estremamente ripetitiva – né l'inserimento di contro cori o samples, talvolta addirittura nocivi allo sviluppo della canzone (esemplificativa è “Good Mourning Sun”, con un irritante, costante risposta al già prevedibilissimo refrain).
Non tutto è da buttare, e dopo un inizio sinceramente desolante poiché terribilmente privo d'ispirazione (si salvano giusto un paio di spunti di “Jesus, Junk and the Jurisdiction”, peraltro ripetuti all'infinito fino a renderli soporiferi), si trovano momenti di brillantezza a metà disco, grazie alle apprezzabili “The Perfume of Traitors” e “Last Europa Kiss”, prima di un nuovo scivolone, dapprima con la title-track, troppo incostante e dalle melodie poco fluide, e poi con altri brani che, pur non raggiungendo le bassezze proposteci in apertura di disco, rimangono piuttosto mediocri; “The Rule of Thirds” prova a rialzare la testa quando è oramai troppo tardi, con una “Takeyya” dotata di buone intuzioni melodiche nascoste durante le strofe (ma caratterizzata dal ritornello banalissimo e sporcato dai soliti, inopportuni samples vocali) e con l'ultima “Let Go” che addirittura propone due (!) linee di chitarra diverse a sostegno del dolce coro di Douglas, riuscendo finalmente a costruire un impianto atmosferico degno di tale nome.
Un disco destinato solo agli appassionati di lunga data, nel caso essi siano disposti ad accontentarsi di quel poco che questo “The Rule of Thirds” ha da offrire, per motivi affettivi o per appagare il desiderio di risentire il timbro inconfondibile di Douglas (in questa occasione, a dire il vero, comunque molto meno espressivo che in passato) ingentilire una nuova manciata di folk ballads.
A prescindere da ciò “The Rule of Thirds” rimane un disco deludente, scialbo e spento, da parte di un progetto sempre più privo d'inventiva e vigore artistico, oramai nulla più che lo sbadito ed insipido erede formale di quello che fu uno dei più toccanti cantautori Folk degli anni '90, e uno dei più fantasiosi sperimentatori degli '80.