- Garm (Kristoffer Rygg) – Voce
- Haavard (Håvard Jørgensen) – Chitarra acustica
- Aiwarikiar (Erik Olivier Lancelot) – Flauto, Percussioni
Ospite:
- Alf Gaaskjønli – Violoncello
1.Østenfor Sol og Vestenfor Maane
2.Ord
3.Høyfjeldsbilde
4.Nattleite
5.Kveldssang
6.Naturmystikk
7.A cappella (Sielens Sang)
8.Hiertets Vee
9.Kledt i Nattens Farger
10.Halling
11.Utreise
12.Sofn - ør paa Ulvers Lund
13.Ulvsblakk
Kveldssanger
Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.
Ugo Foscolo, “Alla Sera” (1803)
“Kveldssanger” è l'opera seconda, nonché la seconda consecutiva meraviglia, del quintetto norvegese Ulver, reduce nel 1994 dalla composizione del capolavoro “Bergtatt”, un disco che magistralmente coniugava due differenti anime della band (l'una ferale, tagliente, Black Metal; l'altra dolce, introspettiva, Folk), inevitabilmente destinate a scindersi poco tempo dopo per essere esplorate a fondo singolarmente. Il 1995 vedeva infatti la band già al lavoro sui “Nattens Madrigal”, 'i Madrigali della Notte', un disco di tumultuoso, purissimo, primitivo Black Metal esaltato da liriche di sovrumana intensità, che vedrà la luce nel 1997 sotto Century Media per divenire un caposaldo della scuola estrema norvegese; parallelamente, una line-up ridotta a tre elementi (la voce di Garm, la chitarra di Haavard, il flauto e le percussioni di Aiwarikiar) portava avanti un progetto anomalo, imprevedibile, passionale: 'i canti della sera', “Kveldssanger”, appunto.
Interamente acustico, “Kveldssanger” è votato alla rielaborazione di melodie ed atmosfere rurali, ataviche e romantiche, elementi che gli Ulver riprendono da quell'orgoglioso patriottismo del tardo Settecento e primissimo Ottocento che portò la Norvegia ad ottenere l'indipendenza culturale, prima ancora che politica, dalla pluri-secolare dominazione danese, attraverso l'esaltazione delle proprie avite tradizioni agresti (dalla lingua alla cultura, dalla musica alle fiabe ed alle leggende), sopravvissute fin dal Medioevo, generazione dopo generazione, nelle piccole comunità montane poste a strettissimo contatto con la natura.
Ed allora la sera, momento di riposo, riflessione e meditazione per eccellenza, diventa per gli Ulver il veicolo ideale per descrivere le passioni, le storie, le emozioni e le memorie della propria gente; il crepuscolo è esaltato ad attimo supremo per immortalare lo scenario naturale e storico a cui la stessa vita degli uomini – la sua semplicità, la sua bellezza, la sua magia – è inscindibilmente legata .
All'epoca dell'ideazione di questo disco si può notare come fosse quasi inconcepibile, per una band dall'impeccabile retaggio estremo, la pubblicazione di un lavoro esclusivamente giocato su toni di un malinconico e delicatissimo Neo Folk: se già un manipolo d'altre Black Metal band locali (dagli Enslaved ai Satyricon, dagli Storm agli stessi Ulver) avevano tentato il connubio tra acustico ed elettrico, tra Metal e Folk, praticamente nessuno aveva ancora azzardato l'impostazione di un intero disco su una totale, mistica devozione ai timbri acustici, o realizzato una così concreta e sincera rivisitazione delle ancestrali sensazioni legate a paesaggi, spiritualità ed introspezione; nonostante ciò, la maestria degli Ulver seppe far digerire all'intransigente scena il loro “Kveldssanger”, e questi venne addirittura 'adottato' all'interno di quella che viene comunemente definita la 'trilogia Black Metal' della band – non solo, ma finirono per influenzare un numero notevole di altri musicisti, tanto che oggigiorno è diventata quasi una prassi, per bands dell'ambito Black, Viking o Folk Metal, pubblicare release 'atipiche' in cui rivisitare musica tradizionale o comporne di acustica; l'esempio forse più clamoroso e radicale viene da un personaggio come Markus Stock che, parlando di “Where at Night the Wood Groouse Plays” (tra l'altro il disco che egli stesso preferisce tra quelli della sua band) arriverà ad ammettere che “...senza 'Kveldssanger', non ci sarebbe mai stato un album acustico degli Empyrium...” – e, con tutta probabilità, di conseguenza sarebbe mancata anche tutta la deriva (Neo) Folk di un'etichetta di valore quale la Prophecy Productions, da sempre strettamente legata al destino delle bands di Stock.
Ma torniamo alle creazioni degli Ulver: “Kveldssanger”, che come il proprio predecessore si assesta su una modesta durata di circa trentacinque minuti, risulta essere un disco dalla ragguardevole omogeneità, e per questo dotato di un'atmosfera coerente, costruita fin nei minimi dettagli e mantenuta integra dal primo all'ultimo secondo; ogni singolo, breve segmento, tuttavia, è modulato con specifiche sonorità, rivelando quindi particolari impressioni, talvolta addirittura antitetiche: se la breve, triste traccia vocale “Ord” lancia un cupissimo avvertimento, la successiva “Høyfjeldsbilde”, all'atto di mostrare innevati panorami montuosi, gira attorno ad arpeggi dolci, calmi e rincuoranti. Proprio gli intimi, evocativi ricami della chitarra acustica di Haavard sono alla base di gran parte delle composizioni, con il soave o drammatico suono del violoncello (cortesia dall'ospite Alf Gaaskjønli) a farsi carico degli accompagnamenti; ulteriori spunti sono dati dalle affusolate armonie del flauto, e dal poderoso canto corale (sovra-inciso) di Garm, impostato e maestoso, spesso posto in netto contrasto con le delicatezze di Haavard: l'esempio più eclatante è dato da “Kledt i Nattens Farger”, in cui si amalgamano le squisite, malinconiche note delle chitarre acustiche con l'epico, sostenuto e robusto cantato baritonale – com'è prevedibile in un disco dei lupi norvegesi, la successiva “Halling” sconcerta nuovamente le attese, cambiando le carte in tavola e rivelando melodie tradizionali dai timbri sobri e gioiosi.
Come detto, l'alternanza tra momenti sereni e positivi ed altri più raccolti e travagliati, rimane infatti una costante in tutto il disco, e restituisce un senso di naturale progressione che ben si accorda con quelli che vogliono essere i fini di “Kveldssanger”: tra i momenti più indovinati, eccellono la silenziosa “Nattleite”, un duetto fra voci e violoncello, l'inquietante “Ulvsblakk”, con spezzate percussioni ed un canto dalle sfumature ombrose e perfide, e l'iniziale “Østenfor Sol og Vestenfor Maane”, la più varia e completa tra tutte le composizioni; solamente sulla bontà delle proprie intuizioni melodiche fanno invece conto le tracce per sola chitarra, come “Hiertets Vee” (conclusa da un motivo di flauto che sibila tra il vento) o “Kveldssang” (dimessa e nostalgica), o per sola voce, quale la settima “A Cappella (Sielens Sang)”, in cui gli ostinati motivi vocali di Garm si intersecano gli uni con gli altri, evolvendosi lentamente fino al fade-out conclusivo.
Considerato come a quel tempo gli Ulver fossero un gruppo di ragazzi a malapena maggiorenni, si intuisce facilmente come possibili miglioramenti a livello di produzione, maturità compositiva e abilità esecutiva avrebbero sicuramente ed agevolmente potuto essere apportati da una band maggiormente smaliziata od esperta – se le potenzialità di una così splendida visione sono quindi realizzate in maniera imperfetta, è ancor più vero che l'ingenua, autentica, fiduciosa magia evocata da Garm, Haavard e Aiwarikiar risulta bastante per sopperire a qualsivoglia mancanza tecnica o finanziaria: “Kveldssanger” è un incantesimo durato pochissimi istanti, la cui forza è tuttavia rimasta intatta, duratura ed incorrotta dallo scorrere del tempo – di lì a poco la sera si farà notte, l'uomo si trasformerà in bestia e i suoi canti nostalgici diverranno insanguinati madrigali: i Lupi s'incammineranno verso nuove sfide, nuovi orizzonti, per non tornare mai più su questi lidi, eterni testimoni di una delle loro più audaci e genuine sperimentazioni.
“...Non riportarmi
alla salvezza
Lascia che sia la Notte
a condurmi avanti
per sempre...”
('Utreise')