- Scott Stapp - Voce
- Brian Marshall - Basso
- Scott Phillips - Batteria
- Mark Tremonti - Chitarra
1. Torn
2. Ode
3. My Own Prision
4. Pity For A Dime
5. In America
6. Illusion
7. Unforgiven
8. Sister
9. What's This Life For
10. One
11. Bound & Tied
My Own Prison
My Own Prison, risalente al 1997, rappresenta la prima fatica discografica dei Creed, complesso post-grunge capitanata dal cantante Scott Stapp che, dopo aver portato i Creed stessi nelle prime posizioni delle chart europee, si è dedicato al suo progetto solista (meglio identificabile come un semplice cambio di monicker più che di stile e impostazione).
Figli di quell'onda d'urto corrispondente al lento e progressivo esaurimento del nichilismo e dell'alienazione del grunge, i Creed furono uno dei tentativi discografici meglio riusciti di inglobamento stilistico delle sonorità della defunta scena di Seattle nel pop-rock più easy-listening ed orecchiabile. My Own Prison viene prodotto appositamente per questo intento e i risultati, al di là del gradimento soggettivo, riconducono a ciò che è stato appena detto: un avvicinamento stilistico spesso scontato e banale, sovente incapace di realizzare quelle congiunzioni attitudinali tra grunge e pop tanto bramate ma, nella maggior parte dei casi, mal riuscite.
Anche se, in fondo, non mancano momenti emozionanti e più incisivi come dimostrano Torn e il suo alternare parti acustiche ad altre più ritmate, o i momenti più spinti e frizzanti di Ode, per passare in seguito alle atmosfere più controllate e malinconiche delle successive My Own Prision e Pity For a Dime (quasi sconcertante la somiglianza tra i due brani e la terzultima traccia What’s This Life For).
Positivo invece il trittico costituito da In America, Illusion e Unforgiven, curate, ben arrangiate e costruite su linee ritmico-melodiche efficaci e sicuramente più emozionanti. My Own Prison, sottolineando il mood pseudo-decadente e riflessivo dei testi di Stapp e lo stile chitarristico fluido e d'impatto del guitarist Tremonti, prosegue su questa scia di ballate pop-rock e momenti post-grunge più corposi e sostenuti, anche se lontani anni luce dagli spunti più graffianti e urticanti del genere che, al contrario, viene costantemente rielaborato in chiave easy-listening.
Si tratta di conseguenza di un album che affonda maggiormente le sue radici nel pop più aspro e "heavy" piuttosto che nei tratti più tipici del rock del dopo Seattle: My Own Prison è un album efficace per chi è alla ricerca di ballate introspettive e malinconiche di chiara matrice post-grunge, ma risulta d'altra parte estremamente scialbo, ripetitivo e banale nelle sue scarne intuizioni compositive, oltre che derivativo per come esso vada alla ricerca di un compromesso stilistico mal studiato e altrettanto male proposto.