- Carter Brown - Tastiere, Elettronica
- Mark Nelson - Chitarra, Voce
- Bobby Donne - Basso
1. Phantom Channel Crossing
2. Midrange
3. Pico
4. The Cipher
5. Lake Speed
6. Scenic Recovery
7. Battered
Labradford
Punto primo: quando si parla di Labradford non si parla di semplice musica, ma del manifesto culturale di un'epoca che, seppur breve, è stata fondamentale sotto il profilo artistico e altrettanto contraddittoria a livello sociale e politico. Punto secondo: inutile scervellarsi per attribuire a quest'opera una definizione di qualsiasi tipo. Il capolavoro che la band statunitense ha composto nel 1996 è infatti un equilibrato intreccio di generi e sonorità in cui coesistono i lontani echi delle sperimentazioni tedesche dei '70 (kosmische e krautrock), frammentari ricordi del rumore industriale dei Throbbing Gristle, sospese atmosfere ambientali (Eno docet) annodate con cura a silenziose cavalcate elettroniche, disorientanti aloni di una psichedelia soffice e pindarica e le oscure inquietudini e i disagi interiori che lungo tutta la durata del disco penetrano nell'anima dell'ascoltatore spandedovi il loro mite dominio. Mite perchè la poesia esistenziale che fuoriesce dai versi di quest'opera non ha nulla di leggendario e mastodontico, bensì si contraddistingue proprio per la sua "umiltà", dipinta in un silenzio svanito e accompagnata dai suoni della società che la circondano: è Phantom Channel Crossing, la prima perla del disco, la perfetta iniziazione ai riti industriali della civiltà occidentale, uno specchio in cui, a passo lento ed inesorabile, la macchina post moderna e gli ultimi bagliori di un'umanità abbandonata si riflettono abbracciati. Ma non è questo un abbraccio amoroso e passionale, bensì figura come nervoso e distaccato, triste ritratto della figura umana che si dona alla sfrenata corsa al progresso perdendo tutto ciò che di "umano" lo distingueva dalle macchine a cui egli è adesso sottomesso.
Lamiere, acciaio che sbatte e cigolii accompagnati da un silenzioso ed evanescente sottofondo elettronico: ai Labradford è bastato questo per trasformare una semplice canzone in un capolavoro dalla forza evocativa senza precedenti, l'introduzione perfetta alle inquiete atmosfere che ci si appresta ad assorbire lungo l'ascolto del disco. Il passo di Labradford è sempre lento e cadenzato, non ci sono aperture solari o passaggi ariosi e armonici, ogni nota è una discesa negli ingranaggi che sotto terra muovono la nostra civiltà, ma non c'è oramai più niente della musica industriale dei due decenni precedenti. Il distacco che i Labradford compiono con quella musica è ovvio ed evidente: le sonorità martellanti e oppressive di quel tempo si spezzano lasciando spazio solo ad una malinconica serie di fotografie in bianco e nero ricoperte di polvere, la protesta e la ribellione che si poteva trarre fuori dalla musica di Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire svanisce venendo sostituita da un abbandono e da una rassegnazione totale nei confronti dell'insormontabile muraglia della cecità moderna.
Il linguaggio delle macchine e la poesia dell'uomo adesso sono la stessa cosa. I Labradford diventano fotografi/reporter della nostra società, ne descrivono il disagio e il male di vivere, intrecciando uomo e industria con geniali intuizioni stilistiche, non raffigurando soltanto l'enorme predominio del progresso, ma disegnando a matita, con tratto lieve e sicuro, i passi che la figura umana compie al suo interno. Ma è un cammino anche pieno di contrasti, come quello che viene creato da Midrange nei confronti della opener Phantom Channel Crossing: gli inquietanti respiri delle macchine si affievoliscono per lasciare spazio a quieti arpeggi di chitarra e a scarne tastiere dai riferimenti psichedelici tipicamente Floydiani, il cantato viene fuori quasi come una voce narrante, l'atmosfera rimane cupa e sottotono ma è arricchita da equilibrati inserti di fiati e violini che fanno dimenticare i lugubri paesaggi industriali aprendo in essi una breccia da cui è possibile intravedere forme chiare e in movimento che tanto sembrano la smarrita anima dell'uomo.
Pico è poi un fantastico sali e scendi tra atmosfere dilatate e refrain inquietanti, resi con maestria assoluta grazie al perfetto accostamento di chitarre, tastiere ed eleganti particolari elettronici che vanno a creare una forma/canzone che verrà spesso ripresa dal movimento post rock (di cui i Labradford sono tra gli iniziatori): l'atmosfera che se ne trae fuori è forse la più toccante e commovente di tutto il disco, un lacerato canto di solitudine estrema dell'anima umana. I territori più ambient vengono invece sapientemente esplorati con The Cipher, brano trascinante nei suoi flussi sonori che contribuiscono a creare una perfetta simbiosi del "cosmico" di Tangerine Dream e le impennate atmosferiche della musica di Brian Eno, mentre con Lake Speed si assiste ai soliti miracoli sonori della band statunitense capace di raffigurare il terrore, il panico, lo smarrimento in maniera terribilmente realistica. Ma non è questo un terrore che deve mettere paura, che deve sconvolgere, che deve provocare infarti: quello dei Labradford è semplicemente l'inquietudine del capire il malessere e il disagio che la civiltà moderna ha portato con sè al suo arrivo.
Nonostante l'aria cupa e asfissiante sembri perdere di consistenza essa rimane invece padrona incontrastata della musica dei Labradford, allegerendosi pian piano delle sovrastrutture industriali e dei particolari più taglienti e rinforzando il proprio nucleo espressivo con sublimi snodamenti elettronici e intrecci strumentali che raggiungono la bellezza più toccante quando chitarre, tastiere ed effetti si ritrovano a sbattere l'uno contro l'altro in maniera disorientante ma perfettamente organizzata a livello compositivo, il tutto permeato da un minimalismo di base che dilata e rende ancora più viva la musica espressa.
Scenic Recovery prosegue sullo stesso stile ma si pone come l'esperimento più atonale del disco:i suoni che prima erano meglio distinti adesso si ritrovano a combattere furiosamente per uscire fuori da questa confusa lite sonora, i tagli cromatici e le dissonanti fasi strumentali iniettano nell'atmosfera un sapore quasi amaro e disturbante, come se stesse penetrando nell'anima dell'ascoltatore non attraverso il sangue ma lungo le vie nasali, trasformando il male di vivere e lo smarrimento esistenziale in un'aria caliginosa che ci impedisce di distinguere le cose: un gioco di prestigio non solo visivo e metaforico, ma magistralmente reso anche a livello musicale.
E' questo un decadente sguardo su di una realtà sbiadita come quella rappresentata nella sfocata copertina del disco; il cammino che si compie ascoltando il capolavoro dei Labradford è un completo calarsi in un'ipnosi esistenziale senza precedenti, un'inquietudine che non spaventa e terrorizza, ma che cattura e rende parte integrante di essa. Molti gruppi in altrettante opere cercarono di descrivere quest'aspetto della società moderna, ma nessuno vi è mai riuscito come invece hanno fatto i Labradford, con queste maniere che mascherano quasi l'aspetto cruento della nostra civiltà e che invece di mettercelo davanti agli occhi lo iniettano direttamente nello spirito, attraverso le siringhe macchiate dallenostre strade arrugginite. Quando Battered conclude infine il disco con i suoi fraseggi nebbiosi e le sue melodie disarmoniche, sembra di essere usciti fuori da una "silenziosa" apocalisse esistenziale, una sorta di paradossale incubo surrealista. Sia per il suo tagliente carattere politico-sociologico, sia per l'aspra e decadente bellezza che i suoi brani esprimono, Labradford è senza dubbio uno di quelli che vengono tipicamente chiamati "album manifesto", un disco che dire "unico nel suo genere" è un eufemismo, un'opera dall'immenso spessore artistico, insomma, un capolavoro. Senza questo disco molta della musica degli anni '90 non sarebbe stata quella che è adesso, senza le sperimentazioni sensoriali del combo di Richmond non avremmo mai avuto così grandi testimonianze della nostra epoca, di quel buio fin de siecle egregiamente ritratto da Carter Brown e soci.
Labradford esprime al meglio quello che Vattimo definì giustamente "postmoderno", il tempo in cui crollano le idee, l'era in cui i pensieri, le visioni totalizzanti e gli imperi ideologici cadono in rovina lasciando una desolazione quasi Eliotiana che finirà tragicamente per divenire il letto in cui l'uomo stesso guarderà il cielo notturno ricoperto da fragili bagliori che non sono le stelle ma i suoi stessi incubi.