- Ulf Theodor Schwadorf (Markus Stock) – Voce, Batteria, Chitarra, Basso
- Andreas Bach – Synth
- Nadine Moelter – Flauti, Violoncello
1.When Shadows Grow Longer (01:30)
2.The Blue Mists Of Night (06:28)
3.Mourners (09:18)
4.Ode To Melancholy (08:48)
5.Lover's Grief (09:12)
6.The Ensemble Of Silence (09:53)
Songs of Moors & Misty Fields
"...And again the moon is on the wave, gliding gently into me,
on silent wings the night comes from there,
as my heart longs to thee..."
Capolavoro del Metal romantico, crogiolo dei più svariati stili metallici (Black, Doom, Folk, Gothic) e spartiacque fra il vecchio e il nuovo corso degli Empyrium, “Songs of Moors and Misty Fields”, capitolo secondo della saga della band tedesca, raccoglie quanto di meglio il gruppo aveva seminato nei due anni precedenti la sua pubblicazione, sia con il demo “...Der Wie Ein Blitz Von Himmel Fiel...” che, soprattutto, con il disco di debutto “A Wintersunset...”, un piccolo gioiello di Doom Metal atmosferico annegato in tastiere imponenti e maestose, capace di mostrare una finezza e una sincerità ineguagliabili nonostante i difetti dovuti all’inesperienza e alle limitate influenze culturali della giovane band.
Nel 1997, Markus Stock (voce e tutti gli strumenti), Andreas Bach (tastiera) e Nadine Moelter (violoncello e flauto) proseguono nel loro viaggio scrivendo il disco che segna il loro addio all’ambito Metal, poiché successivamente il gruppo muterà direzione musicale e virerà verso i componimenti acustici di “Where at Night the Wood Grouse Plays” ed il Neofolk del capolavoro “Weiland”, ad oggi l’ultimo atto della breve ma significativa storia della band.
Emotivo, poetico, ricolmo di melanconia e di sentimento, “Songs of Moors and Misty Fields” si muove tra sfibranti passioni wertheriane e tempestose suggestioni ossianiche, mettendo in mostra paesaggi dominati dall’insistente presenza della notte, della natura e delle emozioni umane, e concentrandosi sui temi dell’amore, della perdita, del rimpianto, della bellezza, echeggiando e celebrando tutti quegli istintivi impulsi drammatici e grandiosi che erano d’ispirazione ai poeti romantici, di cui Stock era avido cultore, ed in parte anche ai novellisti gotici di fine diciannovesimo secolo, cui s’ispirano le sfumature ombrose e tragiche della musica targata Empyrium. Per tradurre in suono le sue liriche, il gruppo fràncone si affida ad un’evoluzione dello stile che l’aveva accompagnato in “...A Wintersunset”, ovverosia un Doom Metal dalle sempre più accentuate tinte Folk, stracolmo di passaggi delicati ed atmosferici, graziato da solenni e maestose aperture Neoclassiche e sinfoniche dei sintetizzatori, oltreché da introspettivi attimi di meditazione legati al solo pianoforte od al duetto di strumenti acustici.
La voce impostata, piena e profonda, vagamente debitrice di certo Gothic Metal, di Markus Stock si alterna nei momenti di maggiore pathos ed aggressività ad uno screaming rauco di chiara scuola Black Metal: nessuno dei due stili viene riprodotto con una fedeltà tecnica di livello elevato, ma l’interpretazione è appassionante e sentita, e i limiti tecnici non arrivano ad intaccare la forza e l’espressività del canto di Stock, talvolta addirittura ridotto ad un sofferto bisbiglio, specialmente nelle occasioni più intime ed introspettive.
"Silent winds, whisper to me
thy songs of solitude and joy..."
Così, dopo la crepuscolare e medievaleggiante introduzione per piano, violoncello, flauto e voce “When Shadows Grow Longer” (presente anche nel disco successivo, in una perfezionata, rallentata e corale versione acustica ben più autentica e toccante) gli Empyrium creano un’ambientazione degna di un quadro di Caspar David Friedrich con “The Blue Mists of Night”, turbolenta e travolgente nel suo originario incedere, ma mutevole e sorprendente per come rinnova registri e mood, incorporando anche tremanti e trascinate sezioni di ricercata lentezza, oltreché i consueti, schivi momenti d’acustica introspezione.
Una media di nove minuti di durata caratterizza i restanti quattro brani, a cominciare da “Mourners”, traccia tradizionalmente ancorata alle cadenze Doom nonché la più angosciosa ed ‘antica’ del lotto, perché composta in coda alle recording sessions di “...A Wintersunset”: il suono asciutto, netto e corposo del brano in terza posizione riesce in parte a migliorare le indecisioni del debut album, ma la scarsa credibilità dell’accompagnamento sintetizzato e l’incedere eccessivamente flemmatico impediscono al brano (che pure, curiosamente, rimane fra i più apprezzati e conosciuti della band, tanto da essere inserito nella recente raccolta “A Retrospective...”) di elevarsi all’altezza dei più ispirati momenti di “Songs of Moors and Misty Fields”: ciò accade anche perché da questo punto in poi si assiste ad un inequivocabile salto di qualità, con la superba “Ode to Melancholy”, aperta dal pianoforte e ispirata al quasi omonimo poema di John Keats, a raggiungere vette sublimi di teatralità ed eleganza, con le declamazioni esaltanti di Stock e i sontuosi arrangiamenti di tastiera ad alternarsi a movimenti acustici di veemente purezza e squillante eloquenza, precursori dei sinuosi e affascinanti esperimenti di “Where at Night...” e “Weiland”.
E’ il flauto sognante di Nadine ad annunciare “Lover’s Grief”, passionale ed addolorata elegia riguardo un amore infelice perché perituro e destinato a sfiorire, con un Markus affranto e disilluso rivolto alla luna in cerca di risposte, supportato da un’orchestra di poderose chitarre elettriche e monumentali tastiere; il catartico break di solo pianoforte che spezza in due il brano impreziosisce ulteriormente un capitolo tanto possente, nelle sue vivide descrizioni, da far impallidire i più quotati acts del panorama Gothic Metal. La soave gentilezza delle chitarre acustiche è invece protagonista della conclusiva “The Ensemble of Silence”, corredata da un’imponente varietà vocale, fra impercettibili sussurri, magnificenti cori ed arcigni scream: ad essere avvincente e sfaccettata, comunque, è l’intera struttura del brano, con il susseguirsi di epici e grandiosi passaggi di tastiera, frementi accelerazioni della batteria e numerosi intermezzi di acustica quiete e squisite, sebbene non particolarmente elaborate, finezze pianistiche.
L’ascoltatore che apprezzerà il melting pot di generi e stili qui rappresentato, e che soprattutto troverà di suo interesse l’atmosfera romantica, notturna e malinconica, inscindibile dall’essenza del disco stesso, che permea “Songs of Moors and Misty Fields” avrà modo di godere di uno dei più ispirati e sottovalutati capitoli dell’evoluzione del Doom Metal anni ’90: sulla scia di My Dying Bride, Anathema e Paradise Lost, gli Empyrium seppero sviluppare una personalità ben definita e un range sonoro decisamente ampio, ovviando in tal modo alle mancanze tecniche (una voce eccedente nell’autocelebrazione e nei toni melodrammatici nonostante Stock non fosse in possesso di doti tecniche sufficienti allo scopo, e sintetizzatori dalla qualità sonora non particolarmente ricca o dettagliata) che avrebbero potuto minare la buona riuscita di un disco che trasuda passione, enfasi ed emotività, ma che sa mitigare questi elementi con una spontanea e naturale capacità d’incantare grazie alla semplicità di vibranti e sentimentali situazioni acustiche: di lì a poco saranno quest’ultime, chiusosi un ciclo ed apertasi una nuova era della storia degli Empyrium, a diventare principali protagoniste, e a prendersi quindi la responsabilità di regalare al pubblico della band tedesca nuovi brividi.
"No love hath ever conquered the borders of time!
No beauty is everlasting, not even thine!
But oh, how I wished your heart would fore'er be mine..."