- Alex Varkatzas - voce
- Dan Jacobs - chitarra
- Travis Miguel - chitarra
- Marc McKnight - basso
- Brandon Saller - batteria e voce
1. Doomsday (03:19)
2. Honor (03:08)
3. Falling Down (02:59)
4. Becoming The Bull (03:40)
5. When Two Are One (04:40)
6. Lose It (03:58)
7. No One Cares (03:03)
8. Can't Happen Here (04:02)
9. Slow Burn (03:26)
10. Blow (04:09)
11. Lead Sails (And A Paper Anchor) (04:16)
Lead Sails Paper Anchor
Dopo un lungo periodo di polemiche, discussioni ed attese, è finalmente venuto il momento di un nuovo album per gli Atreyu, ormai divenuti dei veri e propri beniamini in madre patria grazie ad un boom commerciale a dir poco sbalorditivo. Alcuni mesi fa aveva fatto notizia il divorzio fra la band statunitense e la Victory Records, etichetta abilissima nello sfruttare i trend del momento e le mode in voga fra i teenager d’oltreoceano. Molti si domandarono allora che ne sarebbe stato degli Atreyu, ormai privi di un appoggio fondamentale nella loro personalissima scalata al successo. Ecco allora bussare alla porta Hollywood Records e Roadrunner, pronte a servire rispettivamente il mercato di Stati Uniti e resto del mondo. L’accordo c’è, e gli Atreyu si chiudono così in studio di registrazione per dare alla luce il successore di quel A Death-Grip On Yesterday che tanto aveva fatto discutere di sé. Il titolo scelto per l’opera è Lead Sails Paper Anchor, titolo accompagnato da una copertina piuttosto insolita e di dubbio gusto.
Cosa aspettarsi dagli Atreyu? Il solito disco Metalcore senza lode né infamia? Un lavoro spudoratamente Emo, genere a cui la band di Orange County dà l’impressione di essere ben legata? Assolutamente no: Lead Sails Paper Anchor è l’album della svolta. Questo non significa che il disco qui recensito rappresenti un must per tutti gli amanti di musica Rock, tuttavia esso suscita indubbiamente più interesse e curiosità rispetto ad una pubblicazione ordinaria. Perché? Ascoltare per credere. Abbandonato quasi del tutto il cantato sporco, Alex Varkatzas si riscopre singer dalle capacità più che discrete, mentre la coppia di axemen formata da Dan Jacobs e Travis Miguel sfodera riff Heavy di stampo classico, ma carichi di groove e tanta energia. I ritornelli, invece, non cambiano mai e mettono in mostra il lato melodico e commerciale di Lead Sails Paper Anchor. A cavallo fra orecchiabilità Emo ed ultimi Trivium, i singoli refrain sembrano studiati appositamente per i concerti dal vivo, dove il combo nordamericano sa sprigionare quella grinta che spesso finisce in secondo piano a causa di produzioni troppo laccate. Stavolta, al contrario, la produzione risulta degna del disco e non lo penalizza affatto, come purtroppo accadde nel caso di A Death-Grip On Yesterday. Mentre non è dato sapere il perché di una tale virata stilistica, una volta tanto va elogiato il lavoro svolto da Hollywood Records e Roadrunner, capaci di restituire finalmente agli Atreyu i propri suoni.
Si parte con Doomsday, uno fra i brani più ancorato agli stilemi Metalcore del lotto (alla pari della singolare Can't Happen Here). Irresistibile nella sua frazione centrale, caratterizzata da un ritornello tanto elementare quanto esplosivo, Doomsday rivela comunque l’avvicinamento da parte del complesso statunitense a musicalità più rockeggianti. La conferma arriva con il riff iniziale di Honor, dove ancora una volta il ritornello gioca un ruolo fondamentale ai fini del pezzo. Quella dei Bon Jovi è un’influenza costante nel corso di Lead Sails Paper Anchor, e l’ormai stranota cover di You Give Love A Bad Name (realizzata all’epoca del ben riuscito The Curse) non può che rafforzare quest’impressione. D’altronde brani come Falling Down, Becoming The Bull e Blow sono intrisi di quel sound da arena tipicamente americano, un concentrato di grinta e melodia pronto ad esplodere non appena il pezzo raggiunge il suo apice adrenalinico. Ancor più singolare risulta Two Become One, una sorta di cavalcata Power Metal con tanto di affascinante stacco centrale, mentre le tracce meno impetuose rappresentano forse i punti deboli del disco. Non manca una chicca per gli amanti di Emo: Slow Burn, canzone che riassume in sé stessa tutti gli elementi primari del controverso genere.
Se da un lato c’è chi, sputando allegramente nel proprio piatto, si dichiara Thrasher da una vita pur di allontanarsi dal tanto discusso Metalcore, gli Atreyu riescono a rinnovarsi senza per forza professarsi qualcosa che in realtà non sono. Chiamatela ancora una volta operazione commerciale, chiamatela incoerenza, ma agli Atreyu va comunque attribuito il merito di aver pubblicato un disco vivace e divertente, lontano dai cliché di A Death-Grip On Yesterday ed al tempo stesso dalla freschezza di Suicide Notes And Butterfly Kisses. Io, sinceramente, non ci speravo. Bravi!