- Hope Sandoval - voce
- David Roback - chitarra
- Jill Emery - basso
- Keith Mitchell - batteria
- Suki Ewers - tastiere
- William Cooper - tastiere, violino
1. Halah
2. Blue Flower
3. Ride It On
4. She Hangs Brightly
5. I'm Sailin
6. Give You My Lovin
7. Be My Angel
8. Taste Of Blood
9. Ghost Highway
10. Free
11. Before I Sleep
She Hangs Brightly
Ci troviamo nei dintorni della California, anno 1987, gli Opal stanno portando al guinzaglio il loro Folk Rock psichedelico su e giù per i palchi, come spalla ai The Jesus And Mary Chain durante un loro crepitante tour americano, quando Kendra Smith (già nei Dream Syndacate), bassista e cantante della band, scompare. Fu allora che il chitarrista David Roback (ex - Rain Parade) chiama a sostituirla una giovane cantautrice appena uscita dalle superiori di cui aveva prodotto l’esordio, mai pubblicato: tale Hope Sandoval.
Come fin troppo prevedibile, una volta ritornata la Smith, si accende una litigiosa discussione tra lei e il chitarrista colpevole di averla rimpiazzata senza troppi scrupoli, finchè lo stesso Roback decide di abbandonare gli Opal accompagnato dalla timida Sandoval, decisi a formare una nuova band.
Da questa fuga nacquero, a Pasadena, i Mazzy Star.
Il gruppo ruotò fin da subito intorno al duo Roback-Sandoval, responsabili rispettivamente di musica e parole, ovviamente attingendo con avide mani dalle sonorità tipiche degli Opal e dei Rain Parade, correndo tra la polvere del Blues e del Folk cantautorale, annaspando in pozzanghere di psichedelia e flirtando pesantemente con il Paisley Underground. Tutto questo venne minuziosamente dosato e sciolto in una pentola colma di misticismo, sabbia del deserto californiano e una piccola dose di sonniferi corretti all’LSD, il cui risultato fu questo She Hangs Brightly.
La ballata di apertura Halah mette chiaramente le carte in tavola a proposito di quanto potranno spaziare le aspettative dell’ascoltatore nei confronti dell’album e, soprattutto, della band. Sottili chitarre acustiche, tamburelli riverberati e batterie minimali saranno cuscini, materassi e lenzuoli sui quali si coricherà la voce languida e stregante della cantante, ovviamente protagonista sfuggente del lavoro, sempre danzante lenta e sinuosa in primo piano, dispensando spore soporifere e lisergiche dall’alto della sua acquosa carica ipnotica. Pezzi come la già citata Halah, o Ride It On, o I’m Sailin, o ancora Give You My Lovin’, sembrano il tipo di canzoni che solitamente vengono sputate dalle radioline gracchianti delle stazioni di servizio americane perse in mezzo al deserto, tanto per intenderci.
Evocano atmosfere quasi cinematografiche, così crudelmente romantiche e nostalgiche, così ferocemente inghiottite da quella tristezza malinconica che si ritrova facilmente in diverse pellicole d’oltreoceano, a cui fanno da cornice lunghe macchine dalla vernice sbiadita, strade rettilinee che sembrano fondersi con il tramonto all’orizzonte e ragazze tristi senza più parole da dispensare, nascoste dietro ad occhiali da sole troppo grandi.
Queste sono le sensazioni che sicuramente richiameranno i Mazzy Star nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto all’importante uso della chitarra slide come metallico e levigato arricchimento alle loro tiepide e torbide composizioni, nonché al cantato così distante e flebile, ma allo stesso tempo intimo e cullante come un liquore che penetra nelle ossa.
Il tema e l’atmosfera da storia d’amore finita “un po’ così”, un po’ per le circostanze, un po’ per le incompatibilità caratteriali e la morbosa necessità di sentirsi amati dei protagonisti, tornano in ogni singolo capitolo del disco, rendendo effettivamente il tutto un po’ ripetitivo alla lunga, benchè il disco sia pervaso da una certa dose di orecchiabilità che gli permetta, molto generosamente, di avvalersi dell’etichetta di “Musica Pop”.
Il lavoro non si esaurisce però nelle ballate simil-Country prima elencate, ma lascia timidamente trasparire il fatto che ci troviamo comunque nei primi anni ’90, e le chitarre possono comodamente permettersi qualcosa di più di quattro accordi impolverati tenuti insieme dal fil di ferro. Di qualche segnale di trasgressione possiamo averne esempio in pezzi come Blue Flower, sempre caratterizzato dalle andature lente che costringono tutti i brani, ma scosso da una chitarra elettrica distorta e volutamente pigra, alla quale è affiancata una batteria talmente stanca (anche qui cosa ovviamente voluta) da suonare quasi narcotizzata, nel suo incedere così spoglio ed inalterato per tutta la canzone.
Altro brano dalle stesse distintive peculiarità risulta essere Be My Angel, anche se armato di una melodia decisamente più valida rispetto a Blue Flower, presentandosi come un pezzo da cantare ubriachi, durante un’anonima serata dedicata al karaoke in un qualche bar disperso nel Texas.
Altro stile carezzato dal disco è la psichedelia, che sorge vacua nella titletrack dalla durata superiore ai 6 minuti, dove gli spazi occupati dai suoni si fanno ancora più ampi, le melodie ancora più eteree e sognanti, finché la batteria non decide di accendersi sul finale, scardinando il tappeto sonoro costruito lungo l’esecuzione del brano e lasciandoci scivolare lungo il finale. Anche Taste Of Blood si concede le medesime libertà musicali e stilistiche, mentre la successiva Ghost Highway, forse il pezzo più originale dell’album, nel quale i musicisti sembrano sfogarsi senza troppi rimorsi seguiti da un arpeggio dai richiami quasi orientaleggianti, si macchia purtroppo di un ritornello strumentale dalla melodia piuttosto ingenua e banale, che non corona a dovere la canzone. Chiude l’album il Blues di Before I Sleep, chitarra e voce dalle tonalità tenui e sfumate di languore.
Una volta riposto il disco nella custodia sembra di sentirsi i polmoni gonfi di polvere ed il cuore colmo di solitudine. She Hangs Brightly è un disco quasi minimale, che può apparire inizialmente troppo ripetitivo e monocromatico, e necessita di più ascolti prima che le melodie dei singoli pezzi appaiano riconoscibili e ricordabili. La voce di Hope Sandoval è in ogni caso particolare e struggente, merita di essere ascoltata, soprattutto da tutte quelle reginette “superstar snob-wannabe” che popolano feste liceali e concorsi canori ,inseguendo l’ideale che per essere delle buone cantanti sia obbligatorio sfoggiare quanta più tecnica possibile. Idiozie.
La cantante dei Mazzy Star riesce ad essere significativa ed espressiva anche nei passaggi parlati, e senza appropriarsi di alcuna finezza stilistica si rende capace di dipingere delle immagini nella mente di chi la ascolta.
In definitiva un buon disco, anche se si sente la mancanza di una hit, una gemma, una canzone manifesto, che arriverà solo con il successivo lavoro, tre anni dopo.