Voto: 
6.8 / 10
Autore: 
Filippo Morini
Etichetta: 
4AD
Anno: 
1991
Line-Up: 

- Black Francis - voce, chitarra
- Kim Deal - basso, voce
- David Lovering - batteria
- Joey Santiago - chitarra


Tracklist: 


1. Trompe Le Monde
2. Planet Of Sound
3. Alec Eiffel
4. The Sad Punk
5. Head On
6. U-Mass
7. Palace Of The Brine
8. Letter To Memphis
9. Bird Dream Of The Olympus Mons
10. Space (i believe in)
11. Subbacultcha
12. Distance Equals Rate Times Time
13. Lovely Day
14. Motorway To Roswell
15. The Navajo Knows

Pixies

Trompe le Monde

Dopo aver ascoltato soniche e oblique filastrocche a proposito di scimmie in paradiso, macchine di ossa, ranch-laboratori nascosti nel deserto e menti perse chissà dove, siamo giunti all’ultimo (per ora) atto discografico dell’indubbiamente rivoluzionaria dinastia di Boston.
Quando uscì questo disco, gli apprendisti che nel corso dei 3 anni successivi avrebbero dominato le classifiche di Billboard e non solo, stavano silenziosamente scaldandosi i muscoli, affilando le loro lame appannate da fiato adolescenziale, spingendo furibondi contro il luccicante coperchio del mainstream che li rinchiudeva nel barattolo senza fondo dell’underground, lasciato a macerare da troppo tempo ormai.

I Pixies rappresentarono per tutti i gruppi Grunge una chiave di lettura di inestimabile valore, una disordinata ma completa enciclopedia alternateen, un ricettacolo di stranezze e frequenti colpi di genio da cui attingere a piene mani senza dover chiedere alcun permesso.
Purtroppo molte delle perle chiuse nella loro ipotetica cassaforte vennero già esibite nel corso degli anni precedenti, e questo Trompe Le Monde risulta essere il successivo e definitivo passo lungo il percorso stilistico imboccato subito dopo l’uscita dell’osannato Doolittle.
Il pezzo che condivide il nome con il titolo all’album ci introduce cavalcante in questa nuova giostra di rumori e melodie, facendoci notare come la batteria abbia quasi del tutto perso il suo inedito suono, come le chitarre sempre distortissime ci richiamino talvolta alla mente motivetti dei videogiochi generazione 16-bit, e come il basso sia stato dimenticato e sotterrato da tutto questo.
Planet Of Sound non si allontana molto dalla prima traccia, e anche se il basso si rende più presente, l’assolo assolutamente hard rock di Santiago, le spesse urla di Francis e il fatto che questa canzone sembri la gemella deforme di Rockmusic (contenuta in Bossanova) non fanno altro che gonfiarci il cuore di nostalgia ripensando ai “vecchi” Pixies.
Irrompe Alec Eiffel e i fan della vecchia guardia possono tirare un mezzo sospiro di sollievo, godendosi le classiche ritmiche pop-rock del quartetto, intervallate dai coretti (purtroppo non eseguiti da Kim Deal) intonanti “little Eiffel” e da una robusta batteria punkettina che rende il tutto più saltellante. La chitarra solista anche qui si mette violentemente in mostra mentre la canzone scivola, affondando, verso torbide tastiere anni 80 e voci filtrate, dissolvendosi velocemente nel finale.
The Sad Punk ricalca Planet Of Sound, rivelandosi anonima e insipida, solita furia hard core centrifugata e solito intermezzo melodicamente tranquillo. Head On è la Allison di quest’album, peccato sia una cover dei Jesus and mary chain. Comunque è primaverile, carica, scoppiettante, nonostante la Deal continui a sembrare musicalmente morta.
Concentriamoci ora su U-Mass, pezzo che ascoltato oggi richiama immediatamente alla mente l’intro di Smells Like Teen Spirit: successe la stessa cosa nel 1992, benchè a soggetti invertiti essendo il pezzo dei Pixies stato scritto prima del famoso inno della Generazione X, ed effettivamente siamo di fronte alla canzone (come ammise sinceramente il leader dei Nirvana, pressato dalle critiche dei fan Pixiesiani) che diede vita ad uno dei pezzi più rinomati della storia del Rock, e dalla quale venne praticamente “copiato” quello schitarrare stoppato di Teen Spirit, ovviamente modificandone un po’ le note e il mood generale.
U-Mass è comunque (purtroppo?) molto diversa dalla sua “parente” famosa, e la sua carica apparente non riesce a coinvolgere appieno, è tutto molto prevedibile, molto programmato, molto a senso unico, benchè il testo divertente ci racconti degli anni universitari di Francis in maniera decisamente ironica e dissacrante.
L’album nel frattempo scorre senza stupire o emozionare particolarmente, anzi, talvolta annoiandosi pure, ascoltando pezzi come Palace Of The Brine, Space (I Believe In), Bird dream of the Olympus Mons, o Distance Equals Rate Times Time (che ricorda Head On, più arrabbiata), tutti pezzi che non sfigurerebbero affatto su album di moltissime altre rock bands, ma che su un disco degli stessi che hanno scritto cose come Debaser, Monkey Gone To Heaven, Where Is My Mind? e Gigantic (solo per citarne alcune, sia chiaro), risultano essere pallide ombre zoppicanti delle trovate melodiche di un tempo, cariche come muli di ultra distorsioni inutili, urla un po’ forzate ed esercizi tecnico-stilistici a tratti nauseanti.
Ad ogni modo qualcosa si salva ancora, Letter to Memphis è una grande canzone rock, dal sound corposo e dalle linee melodiche originali che ben si intrecciano tra loro, intessendo un manto di suoni trascinante ed inscalfibile. Francis ci riporta ad atmosfere anni ’80 con la sua voce riverberata e velata di eco, Joey Santiago si impegna nel contenere la voglia di far vedere quanto è progredita la sua tecnica chitarristica e la bassista segue stancamente la chitarra ritmica irrobustendo ulteriormente il suono, a scapito purtroppo della personalità della musicista, che pare essersi sciolta nell’evidente egocentrismo del leader. Motorway To Roswell è l’ultima importante canzone dell’album,e forse la migliore tra tutte: risulta essere un pezzo che poteva tranquillamente essere contenuto in Doolittle, gode di una melodia a presa rapida dalla bellezza stregante, finalmente torna la vecchia cara chitarra acustica del frontman a sostenere il tutto, mentre le parti soliste si allontanano dalle scelte complicate ma meno originali dell’album, reimpossessandosi della tecnica dei dischi passati consistente nel suonare 2 note di numero, tremendamente azzecate e aderenti all’atmosfera generale.
A fare di questo pezzo un vero must manca solo la voce glaciale di Kim Deal a controbattere qualche strofa e le rapaci urla isteriche di Black Francis a rendere l’esperienza più malata e piccante.
Per il resto è sicuramente uno dei migliori pezzi dei Pixies in assoluto.

Si conclude così la carriera discografica di una delle band più influenti degli ultimi 20 anni, e mentre l’ultima traccia sfuma in un silenzio durato fino al 2004, si tirano le somme di questo lavoro che ha deluso molti e convinto pochi.
Si ha come l’impressione che i musicisti abbiano voluto strafare, provando un po’ di tutto, ed inanellando una serie di soluzioni a loro non proprio congeniali, vista l’originale composizione fisico-psicologica-musicale dell’organico che ha dato vita a Trompe le Monde e soprattutto ai passati capolavori.
Qui sembra di trovarsi di fronte a “Black Francis e band” piuttosto che ai Pixies, tanto appare unilaterale l’ispirazione e il contributo alle singole tracce. Tutto è più vaporoso, meglio rifinito e calibrato, si sente molto la mancanza di urgenza, d’improvvisazione, di rabbia, di menefreghismo del passato. Trompe Le Monde sembra studiato per piacere a più pubblico possibile, stupendolo ma senza spaventarlo. L’ 80% di quello che ha reso famoso Surfer rosa e Doolittle, qui non c’è. C’è dell’altro, è chiaro, ma non dello stesso valore e dello stesso impatto di trovate passate.
Francis non urla più imprecazioni in spagnolo, anzi ha proprio cambiato modo di urlare, Kim Deal risente dei conflitti in corso al tempo con il leader e cerca di nascondersi nella musica degli altri, allontanandosi da tutto.

Preso da solo è una album più che buono, dotato di evidente originalità e forza.
Preso come album dei Pixies, punto di vista dal quale io lo sto giudicando, è il peggiore tra quelli da loro pubblicati, il che la dice lunga sulla caratura del materiale da loro proposto tra il 1987 e il 1989.

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