- Dylan Carlson - Chitarra, Banjo, Chitarra Baritono
- Adrienne Davies - Batteria, Percussioni, Sonagli
- John Schuller - Basso
- Dan Tyack - Chitarra Lap Steel, Chitarra Pedal Steel
- Steve Moore - Trombone, Campane Tubolari
1. Mirage (01:45)
2. Land of Some Other Order (07:18)
3. The Dire and Ever Circling Wolves (07:34)
4. Left in the Desert (01:13)
5. Lens of Unrectified Night (07:56)
6. An Inquest Concerning Teeth (05:16)
7. Raiford (The Felon Wind) (07:21)
8. The Dry Lake (03:21)
9. Tethered to the Polestar (04:42)
Hex: Or Printing in the Infernal Method
Sì, è vero, a volte ritornano. Ma di gente che torna in forma come Dylan Carlson non ce n’è poi moltissima.
“Hex - Or Printing in the Infernal Method”, pubblicato nel 2005 dalla Southern Lord, è il disco cui è spettato il compito di far tornare in auge il nome degli Earth nell’ambito dei circoli musicali alternativi, tentando di rimediare ad un decennio nel quale Dylan Carlson, pioniere del Drone-Rock novantiano, era rimasto sostanzialmente in silenzio, vista l’assoluta immobilità del suo progetto musicale, smosso solamente da alcune, poco significative raccolte di brani live o remix.
Dopo quello di Dylan, il nome-chiave dietro questo ritorno, però, è quello Stephen O’Malley, il guru di quei Sunn O))) che negli anni Duemila si sono presi l’eredità degli Earth sulle spalle e, complici alcune trovate scenografiche ed artistiche decisamente indovinate, hanno portato la musica Drone ad un livello di popolarità assolutamente inedito. Il successo dei Sunn e di alcuni loro colleghi (alcuni dei quali sotto Southern Lord), pare abbia portato al giusto livello di maturazione tempi ed audience, ora pronti a gustarsi anche un ritorno degli Earth, finalmente salutati per gli innovatori che furono. I redivivi Earth del 2005 dovevano quindi confrontarsi con una discreta pressione, poiché l’interesse degli appassionati era una lama a doppio taglio, pronta a esaltare il ritorno dei propri campioni o a bocciare un gruppo non più capace di guidare la (ri- ? neo- ?)nata scena Drone.
La scelta più ovvia sarebbe probabilmente stata quella di riprendere le musiche dei primi esperimenti, quelli maggiormente apprezzati dalla critica e dal pubblico, ma Dylan Carlson ha voluto fare di testa sua ancora una volta, puntando su idee relativamente nuove e portando “Hex” ben lontano dalle pesantissime carneficine Drone d’inizio anni ’90: insomma, i suoni monolitici di “Earth 2” e “Phase 3” sono lontani quanto la loro epoca.
“Hex” punta invece su un approccio maggiormente espanso e dilatato, sacrificando la possente carica annichilente degli esordi in favore di atmosfere più ariose, tranquille e spaziose, in cui lenti giri di chitarra elettrica disegnano situazioni da film Western, con tutta la carica drammatica e cinematografica che questo comporta.
La batteria (lentissima) di Adrienne Davis e il trombone (sotterraneo) di Steeve Moore s’immedesimano perfettamente nelle parti loro assegnate, abbellendo i contorni ed evidenziando le sezioni più organiche con un lavoro tanto oscuro quanto fondamentale; il banjo di Carlson e la steel guitar di Dan Tyack sono invece responsabili dei timbri più peculiari del disco, legandosi ai lenti e suadenti movimenti della Fender Telecaster di Dylan, totale dominatrice, e al soffocato ed inquietante apporto del basso di John Schuller.
Nonostante la totale assenza di vocals, si possono individuare in alcuni brani delle idee vicine alla forma-canzone, lascito degli esperimenti simil-Stoner di “Pentastar”; aldilà di questo, la carta vincente di “Hex” è comunque rappresentata dalle sue melodie, ammalianti e perfettamente calibrate: esse sono caratterizzate da un suono che si è fatto asciutto, arido, desertico, in cui le derive Southern Rock impregnano le evoluzioni acide e lisergiche di un Carlson perso nella descrizione degli infiniti spazi e degli interminabili momenti di un deserto sia fisico che mentale.
Il Doom-Metal di “Railford” e il Rock silenzioso (condito da momenti pseudo-Country) di “Tethered to the Pole Star” rappresentano gli estremi nel mezzo dei quali si muovono tutti gli altri pezzi, a partire dalla splendida “Land of Some Other Order”, traccia-simbolo dei nuovi Earth, degli Earth che al mare di drones preferiscono gli immensi, aridi, distesi riverberi, importanti anche quando Carlson & co. esplorano territori prettamente Ambient, come nell’introduzione “Mirage” o negli intermezzi “The Dry Lake” e “Left in the Desert”, caratterizzati dal soffiare del vento, tintinnii di campanelli e sonagli, e lenti accordi trascinati.
Gli amanti del Drone ‘duro e puro’ potrebbero essere riluttanti ad abbracciare la nuova visione di Dylan Carlson, forse più vicina a chi apprezza certo Rock desertico, psichedelico o ambientale: ma la bravura degli Earth sta anche nel non esser voluti tornare a ripercorrere sentieri già battuti quindici anni prima – certo, ci sono un po’ di cose imperfette nel nuovo Earth-sound, soprattutto per quanto riguarda ambientazioni abbastanza monotematiche e atmosfere piuttosto simili le une alle altre, ed è un dato di fatto che “Hex” non abbia la carica innovativa dei primi Earth.
Ma quando ci si siede davanti allo stereo e ci si immerge negli echi delle metalliche corde della Fender di Carlson, si apprezzerà il fatto che lui e Davies si siano inoltrati in nuove vie, e si condividerà la loro scelta: scordatevi le pillole allucinogene da malandata stanza d’albergo di “Phase 3”, dimenticate la vistosa automobile da Midwest di “Pentastar” – i tempi sono cambiati, ora gli Earth girano a piedi, in interminabili spazi aperti, chitarra in mano e sabbia rovente sotto i piedi, allungando lo sguardo verso un orizzonte lontanissimo, scaldati e abbacinati dai raggi dall’ultimo sole del deserto. E si divertono a raccontarci quel che vedono.
Bentornato Dylan, è un piacere riaverti tra noi.