- Ginger Baker - voce, chitarra
- Chris "C.J." Jagdhar - chitarra
- Scott Sorry - basso
- Ritch Battersby - batteria
1. Rooting For The Bad Guy
2. The Sweetest Song
3. The Revolution Will Be Televised
4. The New Flesh
5. Slaughtered Authors
6. The Hard Way
7. Inner City Overture
8. Bi-Polar Baby
9. She's All That
10. Destroy All Monsters
The Wildhearts
Uscita omonima per gli inglesi Wildhearts, la sesta dall'ottimo esordio risalente al 1993 con Earth Vs The Wildhearts, una delle rock band meno note dalle nostre parti e tuttavia più promettenti della scorsa decade che ben presto si perse tra mille difficoltà ed innumerevoli cambi di line up. Formatisi nel 1989 dopo la dipartita del front-man Ginger dai Quireboys, la band fu accolta fin dal suo esordio con grande entusiasmo e tanti elogi, vide passare nei propri ranghi alcuni dei musicisti più apprezzati degli ultimi anni, come Devin Townsend o il batterista dei Dogs D'Amour Bam, ma nonostante ciò non riuscì mai a mantenere le promesse iniziali, complici i continui problemi di droga del cantante Ginger, oltre che di altri membri, che comunque riusciva a trovare spazio per sfornare altri album, alcuni dei quali di buona fattura come P.H.U.Q., e collaborare a vari progetti, in fondo è lui la vera anima della band, l'unico ad esser sempre presente in formazione.
Può quindi sembrare strano, ma in fondo molte attuali band, come Darkness, Backyard Babies, Hardcore Superstar, Hellacopters, devono tutte qualcosa a questo rivoluzionario gruppo, che fin dall'inizio propose un energetico rock n' roll intriso di riff pesanti al limite dell'heavy e del thrash, ritmiche punk sfrenate ed orecchiabili melodie pop e glam, non a caso tra le influenze citate dallo stesso gruppo appaiono nomi di band che suonano in maniera completamente diversa, quali Beatles, Metallica, Nirvana, Sex Pistols o Cheap Trick. "When the Metallica meets the Beatles", così avevano semplificato il loro successo le riviste specializzate dell'epoca, adesso a sentire l'ultima fatica di Ginger e compagni, in tal caso C.J. alla chitarra, uno di quelli che c'era all'inizio e che dopo una lunga assenza è tornato alla base, Ritch alla batteria, un altro che ha fatto vai e vieni, e l'ultimo arrivato Scott Sorry al basso, sembra che emerga un sound che alterna momenti di assoluta genialità alla Mike Patton ad episodi fin troppo poppeggianti e prevedibili.
Si inizia con la lunga, quasi nove minuti, Rooting For The Bad Guy, che parte pesante e sparata al massimo, sembra di assistere ad un lavoro dei Metallica o degli Slayer, prima che intervengano le bellissime aperture melodiche, proseguendo così, tra cambi di tempo, ottimi solos ed una lunga parte strumentale, in un brano che ricorda un po' i Faith No More e un po' i Living Colour, tra i primi a cercare di conciliare hard n' heavy e pop, anche The Sweetest Song, primo singolo estratto, ha un inizio pesante e thrashy, scandito e cantato in screaming, pronto però a lasciare spazio a ritornelli melodici ed orecchiabili, anche se in tal caso l'operazione sembra un po' artificiosa, perdendo così quella genialità che aveva caratterizzato i loro inizi. Si vira adesso verso sonorità pop-punk, un po' alla Green Day, con The Revolution Will Be Televised, allegra e carina ma di vita breve, visto che dopo qualche ascolto avrà ben poco da dire, sulla stessa scia The New Flesh, altro singolo per il quale sarà girato anche un videoclip, vivace ed allegra anch'essa, più vicina a quanto fatto vedere negli ultimi tempi da Hellacopters o Backyard Babies, altra lunghissima composizione è Slaughtered Authors, molto in linea infatti con l'opener, sempre caratterizzata da una continua alternanza tra parti tirate, lunghi intermezzi strumentali e bellissime aperture melodiche che ricordano parecchio, come del resto avviene un po' su tutto il platter, i Cheap Trick più che i Beatles, e lo stesso avviene con The Hard Way, tra le migliori del lotto, dal groove pesante e dalle azzeccate melodie. Altro bel pezzo è Inner City Overture, melodico ma diverso da tutto quanto sentito finora sul presente lavoro, cantato in maniera più pacata da Ginger, segue Bi-Polar Baby, che contiene la carica e l'urgenza del punk sposate ad un'attitudine glam/hard, mentre i momenti peggiori dell'album coincidono con quelle composizioni più orientate ad un pop-punk di facile ma solo momentanea presa, come avviene con She's All That, per fortuna però Destroy All Monsters chiude l'album in sintonia con brani quali Rooting For The Bad Guy o The Hard Way, nonostante i ripetuti ammiccamenti ad un punk molto orecchiabile ma pesante, soprattutto nel groove.
Pop, hard, heavy, thrash e punk si amalgamano in un unico sound per dar vita a queste dieci composizioni, sicuramente piacevoli ma non sempre efficaci, infatti la loro proposta perde gran parte del proprio appeal quando si indirizza verso territori pop-punk prevedibili e commerciali, tuttavia The Wildhearts ha il merito principale di risultare godibile e farsi ascoltare con grande facilità, riuscendo a trasmettere diverse sensazioni ed emozioni, alternando momenti rabbiosi ad altri allegri e gioiosi, ma sempre intrisi da un'immensa vitalità. In Inghilterra qualcuno lo ha addirittura definito probabile album rock dell'anno, pare un po' esagerato, piuttosto c'è da chiedersi se i Wildhearts riusciranno definitivamente a stabilizzarsi e superare quello status di eterna promessa in cui ormai sono imprigionati da oltre un decennio.