Voto: 
5.5 / 10
Autore: 
Andrea Rubini
Genere: 
Etichetta: 
Victory Records/Venus
Anno: 
2007
Line-Up: 

- Joey Nelson - voce
- Jeff Nelson - chitarra
- Chris Profitt - chitarra
- Nick Scarberry - basso
- Brandon Sowder - batteria
- Matt Jones - tastiera

Tracklist: 

1. Goodfellas
2. For Each Remembered Name
3. A Grave Mistake
4. Last Call
5. 7861
6. How The Times Change...
7. Our Last Road
8. The Reason
9. Being in a Coma Is Hell Carried On
10. Falling in Love With Cold Hands
11. Glamour of Corruption

Beneath the Sky

What Demons Do to Saints

E' il 2004 quando i Beneath The Sky si formano a Cincinnati; la band inizia immediatamente a comporre pezzi propri incanalando rabbia e frustrazione nella corrente che ha investito gli States, il metalcore. I sei ragazzi si autoproducono un Ep, inviato come demo a svariate label; risponde all'appello la Victory Records, che scrittura la band e produce il loro esordio What Demons Do To Saints.

La release è composta da undici brani, otto inediti, e tre brani ri-registrati già presenti nel mini dell'anno precedente. Joey ha una delle voci più grezze e sporche udite da anni a questa parte, un growl scorbutico e innaturale, graffiante. Quando poi inasprisce per le parti più cupe, è ancora più gutturale. Le parti clean invece sono le canoniche voci intonate senza infamia e senza lode che imperversano nel panorama core mondiale. Sarò onesto, di questo album si può parlare per decenni come per due minuti, i Beneath The Sky sono la classica band agli esordi che esprime tutti i pregi e difetti del caso; partiamo dunque dai difetti, lasciando gli aspetti positivi alla fine. La band non ha nessuna originalità e, in un genere che soprattutto nel Nuovo Continente è forse il più diffuso tra le nuove leve, manca della giusta personalità: le chitarre e le metriche suonano come gli ultimi Shadows Fall, e nemmeno in modo troppo celato. Il combo dell'Ohio ha fatto un disco sapendo che non avrebbe sconvolto il mercato, tuttavia sarebbe stato facile buttarcelo dentro, perchè le sue caratteristiche e sonorità sono all'ordine del giorno e di assoluta immediatezza. Brani come il singolo 7861 o Our Last Road sono brani facilmente smerciabili, le chitarre "alla thrash" si alternano con metriche più melodiche, a cui fa eco Matt e la sua "keytar", emulando in questo un certo Swedish Metal che sempre più saldamente è da considerarsi tra i principali promotori di questa nuova corrente. I lati positivi sono la grinta e la passione per fare un sound collaudato, ma non scadente; infatti chi cerca del metalcore, qui lo trova indubbiamente. Inoltre il fatto di avere brani superiori ai quattro minuti è positivo, non trovandoci di fronte quindi ai soliti album di trenta minuti scarsi. Per concludere la voce del frontman Nelson può essere motivo di interesse quanto di disdegno, dipende dai timpani di ciascuno.

Trequarti d'ora senza ostacoli per chi vuole un metalcore un pò più grezzo e meno leccato, composto comunque dai riff che già conosciamo. Per essere all'esordio non è male, ma in un panorama talmente concorrenziale come il metalcore statunitense ci si aspetta di più, anche per una band al debutto. Non una bocciatura completa, ma un incoraggiamento a migliorarsi nel bis.
 

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