Voto: 
7.9 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
Goeart/Grunwald
Anno: 
2002
Line-Up: 

- Andreas Ritter - Voce, Chitarra, Percussioni, Fisarmonica, Melodica
- Daniela Metzler - Flauto Traverso
- Melanie Köhler - Voce, Chitarra
- Elfe van der Lieth - Voce, Violino
- Thomas Hansmann - Violoncello
- Norman Mörstedt - Chitarra
- John van der Lieth - Voce, Percussioni
- Sebastian Lück - Pianoforte
- Douglas Pearce - Voce in “Black Jena”


Tracklist: 


1. Verzweiflung
2. Welkes Blatt
3. Sturmgeweiht
4. Letzter Traum
5. Wind
6. Windzeit
7. Herbstabend
8. Einsamkeit
9. Abendrot
10. Black Jena

Forseti

Windzeit

Per i Forseti dell’anno 2002 l’appellativo corretto sarebbe stato quello di cult-band, in quanto adorati ed esaltati da un affezionato pubblico di nicchia senza aver nemmeno mai pubblicato un disco. Difatti, ai cultori del genere erano bastate le poche, eccelse tracce apparse sul 10’’ vinilico “Jenzig” (sparse anche su numerose compilations) e gli acclamati concerti in Germania (tra cui due fortunate esibizioni al rinomato festival Wave Gotik Treffen di Lipsia) per elevare la band fra la crème degli artisti Neofolk; alla ristretta élite che può vantarsi di guidare il genere il gruppo accederà poco dopo, per merito di due attesissime ed affascinanti opere sulla lunga distanza: oltre al già recensito “Erde” (2004), vi presento con questo articolo l’altra perla dei Forseti, il loro debutto, il gioiello che risponde al nome di “Windzeit”.

Circondato da un team di musicisti abilissimi e fidati (molti di essi compariranno anche sul successivo “Erde”) ed accompagnato anche dal super-ospite Douglas Pearce, il leader del progetto Andreas Ritter non deluse le attese della sua cerchia di aficionados, componendo un validissimo disco di dieci canzoni per un totale di circa 45 minuti, che trascorrono senza cedimento alcuno; “Windzeit” non solo si rivelò perfettamente in grado, all’epoca, di rivaleggiare con “Jenzig”, ma addirittura riesce a non perdere smalto nemmeno se paragonato all’impeccabile “Erde”.
Le melodie di chitarra acustica sono le chiavi di volta di tutti i brani di “Windzeit”, sempre sognanti e ben riconoscibili l’una dall’altra; ad abbellire le composizioni di Ritter sono le delicate note dei violini e dei flauti, mentre le percussioni hanno un ruolo piuttosto defilato, e fanno capolino solo quando c’è bisogno di irrobustire il sound generale. Tutt’altro che marginale, invece, è la voce di Andreas, naturalmente dotata di toni gentili e pacati: le corde vocali del musicista tedesco sono le principali artefici del mood intimo e raccolto di “Windzeit”, un disco nettamente più introverso del proprio successore.

Una sezione iniziale di livello clamoroso è la migliore presentazione possibile per qualsiasi disco, e “Windzeit” è uno dei dischi più efficaci in tal senso: episodi indimenticabili sono la dinamica “Verzweiflung”, la poetica e sognante “Welkes Blatt” (l’intervento della voce femminile è un piacevole diversivo, forse anche perché dosato con moderazione) e la guizzante “Sturmgeweiht”, non solo il brano più movimentato del lotto ma anche uno dei più melanconici per l’intervento del suono triste della fisarmonica nel finale.

Sulla stessa linea d’onda i piacevolissimi capitoli successivi, tra cui risulta pedante solo la centrale “Wind”, cui fanno contrasto le atmosfere notturne di “Herbstabend” e le aggraziate melodie della title-track (contenente se non vado errato una citazione dall’Edda durante il refrain, mentre in altre sezioni del disco si incontrano liriche stese, oltre che da Ritter, anche da Uwe Nolte degli Orplid e dal grandissimo scrittore loro compatriota Herman Hesse); chiusura in grande stile con la crepuscolare “Abendrot”, accompagnata da fisarmoniche languenti e chitarre dal suono caldo e profondo, e con la conclusiva “Black Jena”, in cui compare come vocalist e lyricist un personaggio del calibro di Douglas P. dei Death in June, che ritorna il favore di comparire su un disco dell’amico (Ritter aveva suonato in “All Pigs Must Die”) – “Black Jena” è il brano più rarefatto e dolente del disco, un requiem decadente il cui profumo di romanticismo viene esaltato dalla voce piena e sicura di Douglas.

“Windzeit” manca solo della monumentale varietà del successore per esserne alla pari, ma chi preferisce atmosfere più dolenti ed intimiste potrà addirittura preferirlo all’altrimenti incontrastato “Erde”; al di là di questi paragoni, utili semplicemente per orientare il lettore verso un disco piuttosto che l’altro per favorirne l’approccio al Forseti-sound, è importante chiarire come la qualità di “Windzeit” sia assolutamente incontestabile, portando questo platter ad ergersi come uno dei migliori episodi di Neofolk teutonico.

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