- Mat Sinner - Basso e Voce
- Tom Naumann - Chitarra
- Christof Leim - Chitarra
- Klaus Sperling - Batteria
- Frank Rössler - Tastiere
1. The Other Side
2. Diary Of Evil
3. Badlands
4. Black
5. Thunder Roar
6. The Sign
7. Revenge
8. Under The Gun
9. Can’t Stand The Heat
10. No Return
11. Last Man Standing
12. Baby Please Don’t Go (Bonus Track)
Mask Of Sanity
I Sinner sono il progetto personale di Mat Sinner, cantante, bassista, produttore e compositore del gruppo; la band nasce nei primi anni ’80, e raggiunge il successo internazionale con l’ottimo Comin’Out Fighting del 1986, che li porta a diventare una delle realtà più importanti della scena hard n’heavy teutonica. Negli anni ’90, i Sinner attraversano un periodo controverso che vede risultati di vendita piuttosto scarsi, ed il parziale abbandono di Mat che sceglie di dedicarsi alla sua nuova creatura: i Primal Fear; nel 1998 la band torna alla ribalta con The Nature Of Evil, il cui ottimo successo gli consente di suonare a supporto di leggende dell’hard rock come Dio e Deep Purple.
Rimaneggiata la line-up con l’ingresso del batterista Klaus Sperling, proveniente dai Primal Fear, e del chitarrista Christof Leim, ex Traceelords, e con la collaborazione di Andy B. Franck dei Brainstorm, Ralf Scheers dei Primal Fear e Martin Grimm dei Mystic Prophecy in veste di ospiti speciali, i Sinner producono Mask Of Sanity, disco che privilegia il lato melodico della band collocandosi in un limbo tra hard rock e heavy metal classico di stampo tedesco. Non aspettiamoci sorprese durante l’ascolto: tutte le canzoni sono costruite pressappoco con la stessa struttura, ovvero il tradizionale doppia strofa, assolo, terza strofa e finale. La struttura ritmica è molto semplice, e tutto il pathos si fonda sugli accordi di chitarra e sulla voce di Mat Sinner.
Il lavoro degli axemen è ottimo, come si intuisce già dai primi riff acidi e taglienti dell’opener The Other Side; la voce, al contrario, appare completamente sganciata dalla musica: nel tentativo di dare al tutto un’impronta melodica, la voce di Mat è potente ma poco graffiante, troppo profonda rispetto al registro delle chitarre. Questo problema, che si riscontra in gran parte del disco, rende la musica poco coinvolgente ed incisiva; un vero peccato, perché le linee musicali, per quanto siano a tratti ripetitive, sono generalmente molto azzeccate. In Diary Of Evil questa defezione è ancora più palese, e le linee vocali sono piatte e talvolta addirittura fastidiose; salva la canzone per un breve lasso di tempo un meraviglioso assolo melodico.
Migliore invece la seguente Badlands, dove la componente musicale si fa meno tagliente grazie a riff smorzati e ad inserti tastieristici dall’atmosfera sognante; in questo modo, la musica si avvicina al tono della voce di Mat, che da parte sua ci regala un’interpretazione più ispirata e coinvolgente rispetto alle tracce precedenti, dando vita ad un ottimo brano. Un suono simile si riscontra in Black, caratterizzata da stupende melodie chitarristiche, e in Thunder Roar, un altro buon pezzo dove brevi tappeti di tastiere, chitarre taglienti e la voce epica e potente di Mat si fondono dando luogo ad uno dei migliori brani del platter.
La successiva The Sign è invece un pezzo lento, epico e cadenzato, che ricorda a tratti alcuni pezzi dei Manowar, e si rivela in sé piuttosto anonimo. Si ritorna invece al sound classico con la discreta Revenge e la più martellante Under The Gun, pezzo pesante e coinvolgente, arricchito da un bellissimo intermezzo melodico dove si alternano tastiera e chitarra; le melodie e gli assoli sono di certo il pezzo forte di questo album, e danno un grande apporto alle composizioni stupendo e colpendo l’ascoltatore che a tratti si cominciava ad annoiare.
In Can’t Stand The Heat la band torna ad unire chitarre graffianti a una voce che, specie nei refrain, si muove su tonalità melodiche e quasi pop; come nei pezzi precedenti, anche in questo caso il risultato è da dimenticare. No Return è invece un altro pezzo lento e ritmato, che si rivela ancora più banale del precedente.
Si conclude su toni più heavy con Last Man Standing, dove finalmente vediamo un Mat Sinner dalla voce arrabbiata e tagliente; il risultato comunque non è dei migliori, e in questo caso è la musica a non essere troppo incisiva; il pezzo si mantiene comuqnue nella media, così come la bonus track, la cover dei Thin Lizzy Baby Please Don’t Go.
Questo Mask Of Sanity lascia dunque perplessi, in quanto avrebbe potuto essere davvero un gran bel disco se non ci fossero stati questi problemi di compatibilità tra musica e voce, dovuti principalmente alla scelta di rendere le canzoni melodiche mantenendo toni heavy.
Chi ama particolarmente la voce di Mat Sinner potrebbe apprezzarlo molto, tutti gli altri lo troveranno purtroppo anonimo e poco interessante.