- Alex Staropoli - tastiere
- Luca Turilli - chitarra
- Fabio Lione - voce
- Alex Holtzwarth - batteria
- Patrice Guers - basso
1. Dar-Kunor (03:13)
2. Triumph Or Agony (05:02)
3. Heart Of The Darklands (04:10)
4. Old Age Of Wonders (04:35)
5. The Myth Of The Holy Sword (05:03)
6. Il Canto Del Vento (03:54)
7. Silent Dream (03:50)
8. Bloody Red Dungeons (05:11)
9. Son Of Pain (04:43)
10. The Mystic Prophecy Of The Demonknight (16:26)
11. Dark Reign Of Fire (06:26)
Triumph or Agony
I numeri come sempre ci sono, e basta il nome Rhapsody (per la verità ora Rhapsody Of Fire, cambiamento di nome dovuto a problemi di copyright) a darli: una band ormai solida, composta da musicisti (e compositori, non dimentichiamolo) d’ingegno ed esperienza, un’intera orchestra sinfonica e un coro a disposizione, una produzione impeccabile, attori del calibro di Sir Christopher Lee che prestano la propria voce per le parti narrative. Insomma non si scherza mai coi Rhapsody Of Fire, non ora almeno che sono una delle realtà, piaccia o no, a dare maggior lustro al metal nostrano, insieme a pochissimi altri.
Ciò che si nota subito ascoltando l’ormai sesto capitolo della saga ideata da Luca Turilli e musicata insime ad Alex Staropoli è la conferma, del resto già espressa in Symphony Of Enchanted Lands II, di volersi allontanare da quello che poteva essere l’impatto più aggressivo di uscite come Dawn Of Victory o Power Of The Dragonflame. I ritmi dettati da Holzwart rallentano, le ballate aumentano, e si preferisce un approccio più riflessivo e disteso. Già dai primi sussurri di Lione in Dar-Kunor, sinfonica introduzione all’opera, che è ormai un marchio di fabbrica dei nostri, si avverte un senso di pacatezza, imponente certo, ma di un’imponenza non arrogante. Vero è che il pezzo, che definire intro sarebbe riduttivo data la durata di più di tre minuti, avanza in crescendo, fino ad assumere tratti molto epici, che parrebbero precludere a un qualche glorioso e fulminante riff, alla traccia potente di apertura, e invece no: la title-track Triumph Or Agony non è certo un pezzo senza spina dorsale, ma la chitarra di Luca ha qui un ruolo decisamente di secondo piano rispetto alle orchestrazioni e alla tastiera di Staropoli, alla batteria di Holzwarth e ai maestosi cori che supportano Lione nel ritornello. Un approccio più heavy, in cui Luca può destreggiarsi con i suoi inconfondibili riff, non è sempre tralasciato e appare, ad esempio, nella terza Heart Of The Darklands, dove però il ritornello tende sempre a melodie più riflessive, in contrasto con l’assolo centrale, che riporta anch’esso indietro nel tempo fino primi lavori, in cui era lasciato più spazio a passaggi più tecnici e spezzati e ad un uso più massiccio della chitarra. Familiare e in pieno stile Rhapsody Of Fire anche Old Age Of Wonders, accostabile a pezzi folkeggianti come Village Of Dwarves, pur mancando, sempre in linea col resto dell’album, di chitarre distorte, cui Luca preferisce la classica. Ma non mancano certo le sorprese, come la manowareggiante The Myth Of The Holy Sword, con un attacco di batteria che sembra recuperato direttamente da Battle Hymn e un andamento che è tipico della band statunitense. Ma era scontato che lo stretto contatto con di Joey De Maio e soci si sarebbe riflesso sui Rhapsody Of Fire, che pur non rinunciano ai propri elementi distintivi, come si evince dal finale in cui si alternano parti più sinfoniche ad altre di sapore più medievale. Anche altri pezzi, Bloody Red Dungeons per esempio, mostrano la contaminazione con i Manowar.
Un album ben costruito, come al solito, nel suo impianto globale, che nella prima parte presenta un sound sfrondato da molti inserti orchestrali, mostrando la volontà dei compositori triestini di avere per certe tracce un impatto live più sincero, e d’altro canto anche privo degli elementi tipici dei primi lavori, che certo non avevano un impianto così lineare. L’esperienza ormai si fa sentire, e i nostri si permettono di accostare un numero di elementi sempre maggiore, equilibrando pezzi lenti e pieni di pathos (o che almeno vogliono essere tali) come la particolare, e non perché cantata in italiano, Il Canto Del Vento o la tragica e convincente Son Of Pain, che presenta un uso dell’orchestra stavolta massiccio e volto a dare maggiore enfasi al pezzo, a brani come Silent Dream, che potrebbe essere stato composto a quattro mani con Andre Matos; ed ancora c’è spazio per una mini-suite, The Mystic Prophecy Of The Demon Knight, che ricorda la superba traccia conclusiva di Power Of The Dragonflame: Gargoyles, Angels Of Darkness.
Difficile tirare le somme; l’album è da un lato ricco, forse il più succulento che i Rhapsody Of Fire abbiano mai creato, perché, parlando molto semplicemente, c’è semplicemente tutto, e mi sembra sia stato messo in luce in quanto scritto fino ad ora. Eppure, se non in pochi casi, manca la genialità, manca il passaggio che coinvolge, che entusiasma, che travolge e fa pensare: “caspita, diamo un’occhiata ai testi” o “adesso mi compro gli altri”. A mio avviso questo è dovuto allo scarso peso che Luca sta dando alla chitarra, che spesso non c’è, e se non c’è si limita a qualche riff per dare corposità ai brani, non per sostenerne la personalità. Da ascoltare, ma non da osannare insomma, perché si sa benissimo che i Rhapsody Of Fire, al di là del valore tecnico e contenutistico, possono dare qualcosa di molto più prezioso: il coinvolgimento.