- Giorgio Gardino - batteria, vibraphone
- Luciano Boero - basso, Hammond
- Ezio Vevy - chitarra 12 corde, acustica, alettrica, voce, flauto
- Alberto Gaviglio - chitarra 12 corde, acustica, alettrica, voce
- Michele Conta - pianoforte, Moog, clavinet, sintetizzatore
- Oscar Mazzoglio - Hammond, pianoforte, Moog, sintetizzatore
1. Homo Homini Lupus
2. Il Lato Sporco Di Noi
3. Giro Tondo
4. Bandando
5. Plovi Barko
6. Stanotte Dio Che Cosa Fa?
7. La Fine
8. Certe Cose
9. Ojkitawe
10. I Giardini Di Hiroshima
11. Fumo
Homo Homini Lupus
Ventidue lunghi anni sono trascorsi da quel lontano debutto con Forse Le Lucciole Non Si Amano Più, album relativamente tardo all’interno dello sviluppo del Progressive Rock italiano, ma i Locanda Delle Fate decidono di riunirsi nel 1999 con Homo Homini Lupus. La formazione rimane sostanzialmente invariata dal primo lavoro, ad eccezione di Leonardo Sasso, il cantante solista di Forse Le Lucciole Non Si Amano Più: tuttavia i Locanda Delle Fate riescono ancora una volta a produrre delle ottime linee vocali basandosi su cori sinfonici e spesso azzeccati.
Gran parte della critica non ha apprezzato a fondo questo Homo Homini Lupus, un’opera intermedia tra il sound tardo settantiano e le nuove variazioni Progressive contemporanee: il gruppo ha avuto sempre difficoltà a riscontrare successo, per una serie di problemi di percorso, non da ultimo lo scomparire per più di un ventennio senza rilasciare nuove pubblicazioni.
Homo Homini Lupus ovviamente non è all’altezza del primo capolavoro, ma è un disco che sa trasmettere emozioni attraverso il timbro moderno, un Rock Progressivo direzionato verso sonorità Pop di buona fattura.
L’avvio con la tracklist Homo Homini Lupus è alquanto enigmatico, perché gli appassionati del genere non conoscono ancora il nuovo aspetto dei Locanda Delle Fate; invece il brano d’apertura è uno dei più convincenti, poiché ancora legato al finale di Forse Le Lucciole Non Si Amano Più, e in particolare al successivo singolo New York, molto sperimentale e dotato di grande compostezza.
Il cantato in latino stupisce per la coralità esibita nel pezzo: i lunghi passaggi strumentali del primo disco vengono totalmente tralasciati, per valorizzare l’impianto vocale e l’atmosfera di sottofondo, sognante e rilassante.
Più legata al Neo Prog inglese è la seconda Il Lato Sporco Di Noi, arricchita da una melodia penetrante e degna dei grandi cantautori italiani, quali Fabrizio De Andrè e Francesco Guccini. L’approccio è però più determinato e le chitarre acustiche del tessuto sottostante costituiscono un’alternativa innovativa rispetto alla parte centrale, simile alle composizioni di Pallas e Marillion.
La parte iniziale della ritmica Giro Tondo pecca in originalità, mentre lo sviluppo non risulta per nulla scontato perché il registro strumentale si apre con l’impiego di tante soluzioni inaspettate. I Locanda Delle Fate non hanno perso completamente il fascino dell’epoca passata, ma intermezzi come Bandando, in cui si ode una banda di un paese suonare in parata lungo le vie, non assicurano una buona riuscita complessiva. Plovi Barko poi, traccia ambientale e tipicamente tribale da savana, stona musicalmente con il contesto introduttivo, mentre Stanotte Dio Che Cosa Fa? permette di proseguire in modo omogeneo; pur essendo diretta, si perde durante l’evoluzione centrale, anche se il testo è ricercato e sicuramente non banale, caratteristica costante della formazione italiana.
La Fine è al contrario il capitolo meglio riuscito, veramente toccante nella sua atmosfera mesta e nei giochi di parole commoventi: è questa la soluzione più geniale dell’opera, in quanto la più vicina ai toni del vecchio album, per l’uso del flauto soave e per le voci compatte ed espressive.
Anche la triste Certe Cose segue l’alone della precedente, eguagliandola nell’ambito lirico e in quello delle immagini che si propagano dalle note di pianoforte. E’ una una successione di brani che riscuotono con energia l’andamento mediocre di questa fatica discografica: Ojkitawe, anch’essa legata agli stilemi del Neo Prog trascina nei suoi cinque minuti di durata, mentre I Giardini Di Hiroshima conserva dei testi non banali che si stagliano su un sound tipicamente giapponese. Fumo è altrettanto strabiliante, poiché riprende motivi spagnoleggianti su temi Folk e Fusion, inattesi, imprevisti ma immaginabili in un’opera ricca di idee come Homo Homini Lupus.
I Locanda Delle Fate forse avranno perso nel tempo quell’impatto immediato che rendeva consapevole l’ascoltatore di essere di fronte ad un capolavoro riflessivo, ma di certo non è svanita la capacità di produrre ottima musica Rock/Pop che riscatta la band per tutte quelle sfortune accumulate nel tempo; chissà se in futuro si potranno ascoltare nuove uscite dei Locanda Delle Fate, ma sarebbe un vero peccato sprecare una realtà che ha rappresentato fortemente la scena italiana meno conosciuta. In ogni caso Homo Homini Lupus rimane un album discreto, non tanto per la scarsità delle trovate stilistiche al suo interno, bensì per il preciso contrario: troppo discostanti le parti del disco e non un filone continuo che lega l’intera composizione.